15 giugno 2010

Ma non è detto che Ipazia fu uccisa dai cristiani

di Ilaria Ramelli
La fonte più antica relativa alla drammatica vicenda di Ipazia è, vent’anni dopo la sua morte, lo storico ecclesiastico Socrate, grande ammiratore e difensore di Origene, e anche di Ipazia. Causa della morte del­la filosofa fu, a suo avviso, «l’invidia», la stessa che secondo Socrate aveva provocato tanta ostilità contro Orige­ne. Nel marzo del 415, durante la qua­resima, una massa di «uomini esaltati» del popolino (Socrate non parla nem­meno di monaci) e capeggiati da Pie­tro il lettore (uno degli ordini ecclesia­stici minori), catturò Ipazia mentre stava rincasando, strappandola fuori dalla sua piccola carrozza; la trascina­rono in una chiesa detta Kaisar(e)ion, ove la spogliarono e la trucidarono con pezzi acuminati di tegole o cocci. Fatto a brani il suo cor­po, gli assassini bruciarono poi i resti in un altro luogo, detto Kinarón. So­crate non incolpa direttamente Cirillo dell’assassinio: egli dice solo che, poi­ché Ipazia aveva frequenti incontri con Oreste, si sparse «tra il popolo della Chiesa» la «voce calunniosa» che fosse lei ad impedire che il prefetto si ricon­ciliasse con il vescovo. Dopo aver de­scritto il misfatto, Socrate osserva tut­tavia che questo delitto portò «grave biasimo a Cirillo e a tutta la Chiesa d’Alessandria». E soggiunge che nulla potrebbe essere meno cristiano di massacri e violenze di tal genere. Se «il lettore Pietro» è l’omonimo collabora­tore di Cirillo, Pietro Anagnoste, il coinvolgimento del vescovo sarebbe più probabile, anche se Socrate non i­stituisce questo legame. Il filosofo neo­platonico Damascio, in un passo ri­portato dalla Suda, attribuisce invece a Cirillo la responsabilità diretta, anche se ammette che materialmente l’as­sassinio fu compiuto da «uomini be­stiali ». La motivazione addotta da Da­mascio è la stessa data da Socrate: «l’invidia», in questo caso quella di Ci­rillo alla vista della grande folla che se­guiva Ipazia e della venerazione di cui era oggetto, e anche della sua popola­rità e del suo insegnamento dispensa­to, oltre che all’interno della sua scuo­la, pubblicamente a chiunque deside­rasse ascoltarla spiegare Platone, Ari­stotele o altri filosofi. L’imperatore (Teodosio II), secondo Damascio, a­vrebbe fatto giustizia del crimine della sua uccisione, se Edesio non ne avesse corrotto con denaro gli amici. Secondo Damascio, tuttavia, un suo discenden­te, forse Valentiniano, pagò l’ingiusti­zia del predecessore. Damascio ag­giunge che il ricordo di questi fatti era ancora vivo negli alessandrini al suo tempo, quasi un secolo dopo. La Suda ripete quale causa «l’invidia» per l’e­minente sapienza della filosofa, spe­cialmente in fatto di astronomia, e at­tribuisce la responsabilità o a Cirillo stesso, «secondo alcuni», o agli ales­sandrini, «secondo altri». Il cronografo Teofane la ascrive ad «alcuni». Cirillo fu vescovo di Alessandria ancora fino al 444. Era nipote di Teofilo, ma aveva ricevuto una formazione ascetica a Ni­tria e Sceti, dove studiò la Scrittura, A­tanasio, Eusebio e Basilio, proprio allo scoppio della controversia origeniana fu richiamato dal deserto dallo zio, for­se perché sapeva che il suo maestro e­ra un origeniano. Fu profondamente influenzato da Atanasio, che ammira­va Origene. Conosceva bene Origene e Didimo, che probabilmente incontrò quando era capo della scuola cateche­tica, e tendeva al concordismo con la filosofia greca; aveva accesso alla bi­blioteca episcopale di Alessandria, quella della scuola catechetica, e quel­la personale dell’origeniano Didimo; cita e conosce i Cappadoci, Atanasio, Pietro di Alessandria, il primo Gerola­mo, ottimi conoscitori di Origene. Co­me rivela specialmente il suo com­mento a Giovanni, scritto una decina d’anni prima del suo episcopato, se­guiva l’esegesi spirituale di Origene. In quella che è spesso considerata una confutazione di Origene, Cirillo né cita il filosofo alessandrino né confuta il suo vero pensiero. Il suo coinvolgi­mento nella trucidazione di Ipazia re­sta incerto. L’ammirazione di tanti, an­che cristiani, per la coltissima filosofa asceta è invece sicuro. Oltre alle già ri­cordate parole di Sinesio e alla stima di Socrate – due cristiani! –, ne è espres­sione un epigramma greco di Pallada nell’Antologia Palatina, che la chiama «venerabile» e «stella purissima della sapiente cultura». In base alla doppia dipendenza di se e tês parthénou su cui gioca l’epigrammatista, si intende in a­pertura: «Quando ti vedo, adoro te e le parole tue, della vergine», i cui atti era­no tutti «rivolti verso il cielo». Non solo in quanto astronoma: come osservava Sinesio nel De dono, lo studio del cielo era un mezzo per giungere «all’ineffa­bile teologia».
«Avvenire» del 15 giugno 2010

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