21 giugno 2010

La prosa debole dell'ateo

È morto ieri lo scrittore portoghese, premio Nobel nel ’98: nei suoi romanzi la polemica verso il cristianesimo fino alla blasfemia
di Fulvio Panzeri
Ci sono scrittori che, per essere al centro dell’attenzione mediatica e per distogliere il giudizio dalla poco rilevante qualità delle loro opere, amano mettersi al centro dell’attenzione attraverso polemiche e attacchi mediatici. È il caso di Josè Saramago, lo scrittore portoghese scomparso ieri, all’età di 87 anni, lasciando nel suo computer un romanzo non concluso sul traffico d’armi, vincitore di un premio Nobel nel 1998 più per le sue controverse posizioni che per l’ effettiva grandezza della sua opera. Saramago è stato uno scrittore notevolmente sopravvalutato in maniera esagerata in Italia, già acclamato da una decina d’anni come un classico del Novecento quando già oggi molte delle sue opere più famose risultano effettivamente datate e non certo indimenticabili. Basti pensare alla sproporzione dei riconoscimenti che la cultura radical chic ha voluto dedicargli: nientemeno che due volumi di opere nei Meridiani Mondadori; due lauree honoris causa all’Università di Roma e di Siena, un interesse, di cui si capiscono poco le ragioni, verso i suoi testi teatrali (dei quali uno dedicato alla figura di San Francesco, immaginando una «seconda vita» per il Santo d’Assisi in cui continua la sua predicazione in un mondo in cui le sue parole non risuonano più); la ripubblicazione, in questi mesi, di gran parte dei suoi libri nell’Economica Feltrinelli, quando già tutta era disponibile da Einaudi.
Nato nel 1922 in Portogallo, ateo convinto e irriducibile, con i suoi romanzi ha voluto soprattutto condurre una personale e blasfema campagna contro la tradizione cristiana e cattolica attraverso romanzi, quali Memoriale del convento del 1982, con il quale raggiunge il successo di critica e di pubblico, ambientato nel Portogallo del primo Settecento, dominato dall’Inquisizione in cui incrociano i loro destini re e mistici, soldati e veggenti, musicisti e monaci. Nel 1990 con Il Vangelo secondo Gesù Cristo che suscitò polemiche per l’interpretazione della figura del Nazareno, anzitutto in Portogallo, dove il libro fu pubblicato in prima edizione, polemiche che lo costrinsero a lasciare il paese per trasferirsi alle Canarie, dove è vissuto fino alla morte, poi in tutti i paesi in cui è stato tradotto. Saramago rilegge una figura di Gesù Cristo priva della dimensione divina, in una prospettiva solo umana, anzi troppo, al punto da escludere qualsiasi prerogativa legata alla tradizione cristiana. In questo romanzo, più provocatorio che ispirato, non si discosta da quanto raccontato nel Nuovo Testamento, anzi segue fedelmente le vicende di Gesù, destituito però di quella Grazia che gli deriva dalla natura divina. Con una situazione paradossale, nell’economia dell’opera stessa: non è Saramago a distruggere la figura di Gesù, ma è il Cristo senza Dio a mettere k.o. il romanzo di Saramago. Le libertà che si prende sono ampie e audaci, come quella di descrivere Gesù come una persona normale, un giovane uomo in perenne conflitto tra paure e ansie. O l’altra che vede Maria Maddalena come l’unica persona in grado di soffrire per la morte di Cristo, abolendo la figura della Madonna.
Non c’è inventiva nella sua «reinvenzione» ma solo necessità di invettiva, soprattutto là dove i miracoli sono raccontati senza fede, così che Gesù viene intuito come in balìa della volontà di potenza di un Dio padre distante e indifferente al dolore che provoca. Questo della «tirannia» di Dio sugli uomini è uno dei punti su cui Saramago ha sempre insistito, nell’impossibilità non tanto di riconoscere quanto di interpretare la natura del Dio cristiano. È emblematico che così abbia espresso una delle ragioni del suo ateismo: «La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui». E qui sta l’errore interpretativo di Saramago: aver voluto assolutizzare un’impossibilità personale a capire come una verità assoluta, così che la sua invettiva contro l’evento cristiano risulta essere una sfida ai mulini a vento, una sorta di ossessione verso la propria impossibilità a capire.
Nel 1995 pubblica Cecità, dalla critica considerato il suo capolavoro, in cui traccia una visione desolata dell’uomo contemporaneo in un racconto metaforico che mette in luce la visione di un’umanità incapace di distinguere le cose con razionalità, tra abbrutimento e crudeltà. Con l’ultimo romanzo, uscito lo scorso anno e tradotto da Feltrinelli, ritorna alla sua invettiva contro il cristianesimo rileggendo la Genesi. Pure in questo Caino l’invettiva vince sull’invenzione: qui la tesi è la stessa sostenuta nella rilettura del Vangelo, quella di un "dio" malvagio, ingiusto e invidioso, che non ama gli uomini, le sue creature. È quel Dio che Saramago ha voluto mettere alla berlina. Incapace di comprenderlo, lo scrittore ha tentato di distruggerlo. Senza riuscirci. Le sue sono state solo parole. Spesso brutte parole, senza storia.
«Avvenire» del 19 giugno 2010

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