10 giugno 2010

Il naufragio di Scalfari nel «pensiero danzante»

di Cesare Cavalleri
Eugenio Scalfari sa bene, per averlo imparato da Italo Calvino, che «per scrivere un apologo in forma di romanzo ci vuole un di più di fantasia», e tuttavia nei primi capitoli del suo nuovo libro, Per l’alto mare aperto (Einaudi, pp. 292, euro 19,50), non ha rinunciato a tentare un dialogo filosofico con Denis Diderot, confermando di non possedere l’indispensabile «di più di fantasia». Il bravo romanziere lo si vede proprio nella maestria dei dialoghi, che in Scalfari diventano invece domande retoriche con risposta pagata, o gara dei dialoganti a darsi ragione l’un l’altro.
Comincia dunque con una certa sonnolenza il viaggio scalfariano attraverso «la modernità e il pensiero danzante», modernità che il fondatore di Repubblica fa cominciare dagli Essais di Montaigne, considerato iniziatore del relativismo filosofico e morale, midollo della modernità.
Nell’affrontare Kant, Scalfari narra un episodio rivelatore: «Quando nella mia terza liceo il professore di filosofia arrivò a Kant, ricordo che per due lezioni di seguito cercò di spiegarci il 'noumeno'». Ecco, l’argomentare di Scalfari è lo stesso del liceo di una volta (non che l’odierno sia migliore), dove si insegnava la storia della filosofia, ma non la filosofia, dove si sfogliava l’antologia della letteratura, ma non si affrontava la letteratura. Un autore, per favore, o almeno un testo, ma che sia letto in originale, da cima a fondo.
La cultura di Scalfari denuncia un’origine manualistica, cioè formata su manuali scritti da professori di liceo che, a loro volta, si basavano su manuali scritti da altri professori di liceo. È inevitabile: un redattore di manuali non può conoscere di prima mano tutti gli autori di cui scrive, ma è proprio indispensabile scrivere un manuale?
Si intuisce così il sospiro di sollievo sottinteso a parole di Scalfari come queste: «Il cogito cartesiano e l’intero discorso sul metodo che in breve spazio di pagine lo contiene...» Oh, finalmente un intero discorso in poche pagine: Cartesio sì che è un filosofo che ci sa fare, e lo si può leggere in originale.
La manualistica cavalcata di Scalfari, partita da Montaigne, attraversa Spinoza, Kant, Hegel, Tocqueville, Leopardi, Rilke, Proust, Joyce e molti altri, con ovvietà del tipo: «Tutto ciò che nel mondo è vivente, un giorno dovrà morire. Tra vita e morte il nesso è strettissimo»; oppure: «Viene a mente il tempo perduto e ritrovato di proustiana memoria».
Il percorso si conclude con Nietzsche, ultimo dei moderni, colui che ha fatto esplodere la filosofia inaugurando «il pensiero danzante». Con due epigoni: Italo Calvino ed Eugenio Montale, arruolati un po’ a forza (soprattutto Montale) nella comitiva.
Il viaggio di Scalfari, dunque, termina con un naufragio. È vero, la modernità è una parentesi chiusa, e la postmodernità non è incominciata. Scalfari ha ragione di constatare il fallimento del tentativo di Heidegger di iscrivere Nietzsche in un orizzonte metafisico, ma proprio in ciò, riteniamo, si può trovare un indizio di risalita. La modernità ha messo al centro della sua riflessione l’Io, il soggetto, distogliendo lo sguardo, e il fondamento, da Dio. Tale spostamento del centro non poteva che concludersi con lo smacco che Scalfari contempla nobilmente a ciglio asciutto: ma se si vuol trovare un esito, una risposta, bisogna prendere atto della chiusura della parentesi, e ricominciare da prima della modernità. Si tratta, cioè, di restituire alla filosofia il suo ruolo ancillare nei confronti della teologia, perché Dio è l’oggetto più alto a cui la ragione umana si possa applicare. E solo da lì il problema del senso (della vita, oltre che dell’essere) può essere avviato a soluzione. La domanda metafisica non può essere rimossa o elusa: è sempre lì a interpellarci come sfida e compimento.
Tommaso ha ancora da dirci molte cose, molte di più che non i giganti della modernità (di cui pur sempre ci nutriamo), e anche dei neotomisti.
«Avvenire» del 9 giugno 2010

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