14 giugno 2010

Il futuro è nano

La presenza delle nuove tecnologie che lavorano sulla materia a una dimensione di un miliardesimo di metro si fa già sentire nei più svariati ambiti della nostra vita. Il loro sviluppo è potenzialmente illimitato: opportunità e rischi di cui prendere coscienza
di Silvia Camisasca
Nascoste in fibre di tessuti, perse tra polveri di saponi e detersivi, sciolte in creme e ciprie, confuse tra granelli di zucchero come di sale, camuffate da schermi tridimensionali di tv e pc: con la loro presenza scandiscono i gesti del vivere quotidiano da mattina a sera e, nel caso di un set di tennis con infortunio, le ritroviamo prima nel ferro delle racchette poi a consolarci nel disinfettante delle bende. Versatili a tal punto da prestarsi a innumerevoli applicazioni, di loro si conosce ancora poco, tanto che il fisico americano Richard Feynman (1918-1988), il primo ad ipotizzarne l’esistenza in un celebre discorso del 1959, fu definito «visionario». Solo agli inizi degli anni ’90 negli Usa la prima amministrazione Clinton vide nelle nanotecnologie un settore strategico multidisciplinare per il quale urgeva un progetto di ricerca coerente: prese così il via il piano National nanotecnology initiative , destinato ad inaugurare un ventennio di vertiginoso sviluppo.
Grande appeal sull’opinione pubblica, oggi il fenomeno «nano» abbraccia scienza ed etica, tecnologia e sociologia, mercato e filosofia: quale è dunque l’aspetto intrigante della nanotecnologia che, per definizione, rappresenta l’approccio multidisciplinare alla realizzazione di materiali e dispositivi in cui almeno una dimensione sia su scala del nanometro (pari alla miliardesima parte di metro). In effetti, le manipolazioni della materia a livello nanometrico determinano proprietà nuove e diverse da quelle che gli stessi materiali esprimono a livello ordinario, così che nel caso del «nano», la dimensione, modificandone drasticamente le proprietà, diventa una variabile della natura del materiale o del sistema. Ad esempio, due nanoparticelle di oro possiedono proprietà diverse se una contiene «qualche» atomo in più dell’altra.
L’espansione del mercato ed il trend di crescita del settore nanotech pongono l’esigenza di una maggior consapevolezza, senza pregiudizi, da parte dei consumatori circa il significato e le implicazioni connessi all’uso del «nano», e di una maggiore trasparenza da parte dei produttori e degli esperti di settore. Per l’impatto ambientale e per i rischi sanitari di consumatori e lavoratori, la questione apre interrogativi tali da motivare l’inserimento delle sostanze nanotecnologiche nella classe chimica per cui è imposto il Principio di Precauzione di trasparenza, responsabilità e sostenibilità del regolamento Reach della Commissione europea. Con l’approvazione dell’aprile del 2009 della risoluzione sugli aspetti normativi dei nanomateriali, l’Europa, riconoscendo la mancanza di dati e di informazione, ha proceduto per iniziativa degli Stati membri più «nanoavanzati» (Svizzera, Germania, Paesi Scandinavi) con un quadro comune di regolamentazione e di condotta che imponga la rigorosa applicazione del «principio di precauzione».
Nanomedicina e beni culturali costituiscono esempi particolarmente felici per bilancio rischi-benefici: per la qualità della vita e dell’ambiente rappresentano un promettente terreno di sviluppo privilegiato da ricerca ed investimenti. «L’associazione nanoparticelle e salute può essere declinata in due modi radicalmente opposti – spiega Gianluigi Forloni, capo del dipartimento di Neuroscienze all’Istituto farmacologico Mario Negri di Milano e presidente del Comitato scientifico Legambiente Lombardia – per gli effetti tossicologici negativi sull’organismo conseguente all’esposizione a nanoparticelle e, al contrario, per gli aspetti innovativi». Gli studi tossicologici, ancora agli inizi, dovranno tenere conto delle particolari caratteristiche del materiale nano che, per esempio, mette in discussione la classica relazione lineare dose­effetto tipica delle analisi tossicologiche: «La struttura nano può portare ad effetti addirittura inversamente proporzionali alle concentrazioni totali, i dati più rilevanti si riferiscono alle esposizioni agli inquinanti atmosferici», sottolinea Forloni. Al contrario, in ambito medicale, sfruttando la penetrabilità delle nanoparticelle in membrane biologiche si perseguono tre obiettivi: di veicolare farmaci o sostanze bioattive in modo mirato sull’organo bersaglio, di aumentare la biodisponibilità e l’efficacia delle sostanze traghettate grazie all’associazione con nanoparticelle, in ultimo, di consentire l’azione combinata di più molecole sul bersaglio disponendole su nanosuperfici. «Nelle nostre ricerche operiamo sul sistema nervoso centrale – racconta sempre Forloni – assemblando le nano componenti e con le opportune sostanze. Gli ostacoli sono diversi: dal passaggio della barriera encefalica per raggiungere il distretto cerebrale alla 'funzionalizzazione' per evitare reazioni immunitarie. C’è poi da tener conto del destino finale e della biodegradabilità di questi elementi», conclude Forloni.
Il binomio nanotecnologie-arte contiene in sé il fascino di coniugare i più recenti progressi tecnologici con la conservazione e valorizzazione del patrimonio storico­culturale e artistico, un bene non rinnovabile giunto fino a noi dal passato. Da qui l’importanza di disporre di ambienti di conservazione caratterizzati da un microclima adatto a limitare il degrado delle opere, in cui possa essere monitorata la presenza di composti chimici reattivi. Per questo «conoscere la distribuzione spaziale della componente chimica del microclima può essere molto utile», secondo Emanuele Barborini, responsabile della Ricerca Applicata di Tethis, azienda di Milano attiva nel settore nanotech. «Anidride solforosa e biossido di azoto possono produrre acidi in grado di attaccare metalli, elementi calcarei e cellulosa; l’ozono è un forte ossidante; ammoniaca e composti volatili completano il quadro chimico cui un’opera può essere esposta. Sfruttando i recenti ritrovati della nanotecnologia si possono realizzare innovative reti di nanosensori di gas, collegati fra loro via radio, semplici, robusti ed estremamente miniaturizzati, con una parte sensibile costituita da un sottile strato di ossido metallico nanostrutturato», argomenta Barborini. Numerosi nanosensori dotati dell’opportuna elettronica di acquisizione, condizionamento e trasmissione dei segnali, organizzati in una rete di monitoraggio capillare, rappresentano un salto tecnologico per la caratterizzazione chimico-fisica dei microclimi nei siti di interesse artistico, così come dei microclimi in generale.
«Avvenire» del 13 giugno 2010

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