12 giugno 2010

Il diritto di non nascere figlio dell’eugenetica

La sentenza francese
di Francesco D'Agostino
Gli americani hanno inventato un’espressione efficacissima: wrongful birth, 'nascita sbagliata'. Chi la usa, lo fa con riferimento a vite malate, vite che non avrebbe dovuto vedere la luce, vite che avrebbero 'meritato' di essere abortite.
Ed effettivamente, dovunque esista una legislazione abortista, a vite di questo genere non viene riconosciuto il diritto alla nascita; si tratta di eugenetica bella e buona, che però le varie legislazioni vigenti nascondono sotto un sottile velo di ipocrisia: non a causa della sua malformazione sarebbe lecito abortire un feto, ma solo quando la sua nascita causerebbe «un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna» (così l’articolo 6 della nostra legge 194/1978). L’espressione 'aborto terapeutico' è entrata ormai nell’uso, anche se palesemente incongrua: in queste pratiche abortive di 'terapia' non se ne vede l’ombra; uccidere una vita, ancorché malata, non è certo un modo per guarirla, ma semplicemente per sbarazzarsene. L’ipocrisia, anche in questo caso, resta un omaggio che il vizio rende alla virtù e a volte l’ipocrisia rende la vita più tollerabile del cinismo.
La richiesta di un aborto 'terapeutico' esclude che l’aborto sia da considerare un diritto insindacabile delle donne; esso va piuttosto ritenuta una tecnica di tutela 'propria' della gestante. In altre parole, per quanto ipocrita, il concetto di aborto 'terapeutico' non implica di per sé la negazione che la vita fetale possieda anche essa un valore intrinseco, meritevole di tutela, pur se questo valore è comunque subordinato a quello della vita materna, ritenuto prevalente. Ma di ipocrisia comunque si tratta. Se ne può uscire? In linea di principio, le vie possono essere solo due. La prima richiede, soprattutto alle madri, un senso di responsabilità e una forza morale che diventa sempre più rara: è quella (tragica ma giusta) di non offrire false giustificazioni al cosiddetto aborto terapeutico e di accettare la nascita (tragica, ma giusta) di soggetti portatori di handicap, in quanto esseri umani a pieno titolo, meritevoli di rispetto come qualsiasi altro essere umano e capaci di rappresentare anche essi, al loro modo, una dimensione di senso. La seconda è quella (seducente, ma ingiusta, perché ingiustificabile) di negare ogni dignità alla vita prenatale malata e di giustificare a partire dalla mera diagnosi prenatale infausta la richiesta di aborto, abbandonando il ricorso alla foglia di fico di un inesistente pericolo che verrebbe a correre la salute materna. Ne segue che nel caso di un errore diagnostico, che avesse tolto alla donna la possibilità di ricorrere all’aborto, sarebbe giustificata la richiesta di chi fosse nato a seguito di tale errore di essere risarcito, per il solo fatto della sua wrongful birth , per il solo fatto di essere nato, quando invece non sarebbe dovuto nascere. La questione, denominata 'caso Perruche', ha avvelenato la coscienza civile dei francesi per vari anni e sembra giunta a una sua conclusione solo ora: il Consiglio Costituzionale ha stabilito che il mero fatto di essere nati con handicap non può essere considerato un pregiudizio meritevole di risarcimento. Se ci si fosse definitivamente orientati in senso contrario (come aveva fatto alcuni anni fa la Corte di Cassazione francese), se si fosse definitivamente stabilito il diritto a risarcire un bimbo nato portatore di handicap, per l’erronea diagnosi prenatale del suo male, non avremmo semplicemente assistito al trionfo dei teorici della wrongful birth, ma avremmo dato la stura a un’ulteriore terribile e, a suo modo, ben più coerente richiesta: quella della legalizzazione dell’infanticidio degli handicappati. A rigor di logica ci sarebbe infatti un solo modo coerente per risolvere il problema di chi fosse nato per 'errore': non quello di risarcirlo con denaro, ma quello di legalizzarne l’uccisione. Possiamo rallegrarci della decisione del Consiglio Costituzionale francese? Certamente sì, ma non troppo. Il Consiglio si è fermato davanti all’abisso dell’eugenetica neonatale, di cui ha percepito l’orrore. Non ha potuto (ma in altre occasioni, lo sappiamo, non ha voluto) prendere atto che quell’abisso non esiste 'in natura'; sono stati gli uomini con le legislazioni abortiste a scavarlo e a consentire che continuasse ad approfondirsi.
Quella dell’aborto resta la questione etica cruciale della modernità, resta uno scandalo antropologico, un macigno che nessuno è in grado di rimuovere o di ridurre di dimensioni. Ben vengano sentenze come questa del Consiglio Costituzionale, purché non ci si illuda che esse, che rappresentano al più un palliativo, possano sanare una piaga che resta tragica e incurabile.
«Avvenire» del 12 giugno 2010

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