14 giugno 2010

Apologia della crociata

L’irenismo ecumenico è una distorsione della dottrina della chiesa e della sua storia. Il vero spirito del cristianesimo è combattere per la verità e per difendere le radici che affondano nei secoli luminosi del medioevo
di Roberto de Mattei
"L’addio della chiesa allo spirito di crociata” è un refrain che ricorre da almeno quarant’anni e che condensa la concezione del mondo di un certo cristianesimo, che ha fatto del dialogo ecumenista il suo vangelo. Questa visione si basa su di una distorsione storica e su di un’altrettanto grave deformazione della dottrina della chiesa. Nel caso dell’articolo di Giancarlo Zizola su Repubblica del 7 giugno, si aggiunge a ciò un impervio tentativo di attribuire allo stesso Papa regnante questo slittamento storico e dottrinale. Benedetto XVI, come egli disse nella sua prima udienza del 27 aprile 2005, ha assunto questo nome, non solo in onore di Benedetto XV, ma anche e soprattutto per evocare la straordinaria figura del grande “Patriarca del monachesimo occidentale”, san Benedetto da Norcia, che “costituisce un fondamentale punto di riferimento per l’unità dell’Europa e un forte richiamo alle irrinunciabili radici cristiane della sua cultura e della sua civiltà”.
Ma quali sono quelle radici cristiane che, secondo Benedetto XVI, come per il suo predecessore Giovanni Paolo II, non solo i cattolici, ma anche i laici, hanno il diritto e il dovere di difendere? Queste radici, o se si preferisce, i frutti di queste radici, sono sotto i nostri occhi: sono cattedrali, monumenti, palazzi, piazze, strade, ma anche musica, letteratura, poesia, scienza, arte. Questa visibile mappa della memoria è impressa nel codice genetico della nostra civiltà. Ebbene le crociate fanno parte, come le cattedrali, del paesaggio spirituale europeo e ne esprimono la stessa concezione del mondo.
Lo storico dell’arte Erwin Panofsky ha studiato il rapporto tra le vetrate gotiche e la filosofia scolastica, sottolineando come la luminosità delle cattedrali medievali corrisponda alla trasparenza di pensiero di opere come la “Somma Teologica” di san Tommaso d’Aquino (Erwin Panofsky, “Architettura gotica e filosofia scolastica”). Dall’epopea delle crociate traspare – potremmo aggiungere – la stessa luminosità, la stessa diafana bellezza, lo stesso slancio verso l’alto, la stessa forza creatrice, delle opere di san Tommaso d’Aquino e di Dante. Anche le crociate fanno parte di quel patrimonio di valori che, come scriveva Giovanni Paolo II, sono derivati dal Vangelo e si sono sviluppati in coerenza con esso (“Memoria e identità”).
“I capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati (…)” – ha affermato ancora Benedetto XVI (udienza generale del 18 novembre 2009). Lo stesso potrebbe dirsi delle crociate, che hanno inciso nei campi di battaglia della Palestina quella stessa scala di valori che gli architetti infondevano in quegli anni nella pietra delle cattedrali. Né le crociate, né le cattedrali possono essere comprese da chi ignora il modo di pensare, e soprattutto, la fede vissuta, che animava i loro artefici.
Nella cattedrale il popolo cristiano si raccoglieva attorno a un sacerdote che, celebrando la Messa su di un altare rivolto a oriente, rinnovava in maniera incruenta il mistero stesso del cristianesimo: l’Incarnazione, Passione e morte di Gesù Cristo. Nelle crociate, questo stesso popolo prendeva le armi per liberare la Città Sacra di Gerusalemme, caduta nelle mani dei maomettani. La tomba vuota del Santo Sepolcro era, con la Sindone, la testimonianza viva della Resurrezione e la reliquia più preziosa della cristianità.
La prima crociata fu predicata come meditazione all’appello di Cristo che dice: “Chi vuole venire dietro di me rinunci a se stesso, prenda la sua croce e mi segua” (Mt. 16, 21-27). Quella stessa Croce, attorno a cui si riuniva il popolo delle cattedrali, era impressa sulla veste dei crociati ed esprimeva l’atto con cui il cristiano si diceva disposto ad offrire la propria vita, per il bene soprannaturale del prossimo, impugnando le armi. Lo spirito delle crociate era, e rimane, lo spirito stesso del cristianesimo: l’amore al mistero incomprensibile della Croce.
Il professor Jonathan Riley-Smith, caposcuola del rinnovamento degli studi sulle crociate, riferendosi a coloro che avevano risposto all’appello della prima crociata, afferma che essi erano “infiammati dall’ardore della carità”, e alla carità, all’amor di Dio, fa risalire la motivazione profonda di questa impresa. Offrire la propria vita è infatti la più grande forma di amore e il più perfetto atto di carità, poiché ci fa perfetti imitatori di Gesù secondo le parole del Vangelo, secondo cui “nessuno ha più grande amore di colui che dà la sua vita per Lui e per i suoi fratelli” (Gv. 3, 16; 15, 13). Solo l’amore, riassunto dal sacrificio di Cristo sulla Croce, è in grado di sconfiggere la morte, che è la suprema sofferenza fisica, e il peccato, che è il supremo male morale. Tale spirito e stato d’animo, abbondantemente documentato dalle fonti, non sorge come un fiume limaccioso dall’inconscio collettivo dell’occidente, ma dall’atto libero di singoli uomini che nei secoli luminosi del medioevo rispondono ad un appello che si rivolge alla loro coscienza.
La risposta a questo appello può essere considerata una “categoria dello spirito” che non tramonta. L’idea di crociata infatti non è solo un evento storico circoscritto al medioevo, ma è una costante dell’animo cristiano che nella storia conosce momenti di eclissi, ma che sotto diverse forme è destinata a riaffiorare. Espungere l’idea di crociata dalla propria “piattaforma programmatica” significa espungere l’idea stessa del combattimento cristiano. L’insegnamento che la vita spirituale è lotta è particolarmente svolto nelle lettere di san Paolo dove si trovano in molti luoghi metafore e immagini tratte dalla vita del guerriero; l’Apostolo spiega come la vita del cristiano sia un bonum certamen che va combattuto “da buon soldato di Gesù Cristo” (II Tim. 2, 3). “Spogliamoci – egli dice – dalle opere delle tenebre e indossiamo l’armatura della luce” (Rom. 13, 12); “Rivestitevi dell’armatura di Dio per potere resistere agli assalti del diavolo (…). State dunque cinti della verità, rivestiti della lorica della giustizia, calzati della saldezza del Vangelo della pace, impugnando lo scudo della fede, col quale potrete estinguere i dardi infuocati del Maligno, prendere l’elmo della salvezza e il gladio dello spirito, che è la parola di Dio” (Ef. 6, 11, 14-17).
Lo spirito di crociata e quello del martirio hanno una comune origine in questa dimensione profonda del combattimento spirituale. Il martirio, come ogni sofferenza, presuppone il combattimento. La vita stessa di Gesù Cristo può essere considerata come un costante combattimento contro l’insieme delle forze ostili al Regno di Dio: il peccato, il mondo e il demonio. Che la vita del cristiano sia una lotta è uno dei concetti che più spesso risuona nel Nuovo Testamento dove si legge: “Non sarà coronato se non colui che avrà legittimamente combattuto” (II Tim. 2, 5). Il Vangelo del resto, nel suo significato originario, è annuncio di vittoria militare, in questo caso la vittoria di Cristo sul male e sulle potenze delle tenebre.
Perché la chiesa non può abbandonare lo spirito di crociata? Molto semplicemente perché non può rinnegare la propria storia e la propria dottrina. La storia delle crociate non è una appendice insignificante della storia della chiesa, ma si intreccia strettamente con la storia del papato. Le crociate non sono legate a un singolo Papa, ma ad una storia ininterrotta di pontefici, per lo più santi, dal Beato Urbano II, che promulgò la prima crociata, a san Pio V e al Beato Innocenzo XI, che promossero “leghe sante” contro i Turchi a Lepanto, Budapest e Vienna, tra il XVI e il XVII secolo. Non è ignoto agli storici che, ancora nel XX secolo, Pio XII studiò la possibilità di bandire una “crociata” anticomunista dopo la rivolta di Ungheria nel 1956.
A quella dei Papi, si aggiunge la testimonianza dei santi, a cominciare da Luigi IX, il re crociato per eccellenza, che con Giovanna d’Arco, anch’essa a suo modo “crociata”, è patrono della Francia, la “figlia primogenita della chiesa”. Contrapporre a queste figure il nostro san Francesco denota, se non malafede, una notevole misconoscenza storica. La più attendibile fonte che abbiamo del viaggio di Francesco è la testimonianza del suo compagno, frate Illuminato, che ci racconta come il santo difese l’opera dei crociati e propose al Sultano la conversione. E come dimenticare le legioni di francescani che si unirono, nei secoli ai crociati, a cominciare da san Giovanni da Capestrano (1386-1456), predicatore della grande crociata del XV secolo, culminata con la liberazione di Belgrado?
Al nome di san Francesco dovremmo affiancare quello di santa Caterina da Siena, patrona d’Italia e Dottore della chiesa di cui in un recente saggio Massimo Viglione ha mostrato l’animo profondamente “crociato” (“L’idea di crociata in Santa Caterina da Siena”). A Lei potremmo aggiungere un altro dottore di sesso femminile, questa volta contemporaneo, santa Teresina del Bambin Gesù, che in una pagina toccante, rivolgendosi a Gesù, afferma di voler “percorrere la terra, predicare il tuo nome, e piantare sul suolo infedele la tua Croce gloriosa”, riunendo in un’unica vocazione quelle dell’apostolo, del crociato, del martire. “Sento – ella scrive – la vocazione di Guerriero, di Sacerdote, di Apostolo, di Dottore, di Martire; insomma, sento il bisogno, il desiderio di compiere per te, Gesù, tutte le opere più eroiche. Sento nella mia anima il coraggio di un Crociato, di uno Zuavo Pontificio: vorrei morire su un campo di battaglia per la difesa della Chiesa…”. E il 4 agosto 1897, sul letto di morte, rivolgendosi alla Superiora, mormora: “Oh, no, non avrei avuto paura di andare in guerra. Per esempio, ai tempi delle crociate, con quale felicità sarei partita per combattere gli eretici” (“Storia di un’anima”, in “Opere complete”).
La chiesa non ha mai professato il pacifismo. Il combattimento cristiano, che è prima di tutto un atteggiamento spirituale, ma che comprende la possibilità della legittima difesa, della guerra giusta e perfino della “guerra santa”, appartiene alla più pura tradizione cattolica. Chi professa l’ecumenismo e il pacifismo a oltranza dimentica che esistono mali più profondi di quelli fisici e materiali, e confonde le conseguenze rovinose della guerra sul piano fisico, con le sue cause, che sono morali e risalgono alla violazione dell’ordine, in una parola a quel peccato che solo può essere sconfitto dalla Croce. Il mondo moderno, che è immerso nell’edonismo e ha perso la fede, giudica come mali, e come mali assoluti, solo quelli fisici, dimenticando che il male e il dolore accompagna inevitabilmente la vita dell’uomo, spesso elevandola.
Lo spirito delle crociate e di Lepanto ci trasmette un messaggio di fortezza cristiana che è disposizione d’animo a sacrificare i beni terreni, di fronte a beni più alti, quali la giustizia, la verità, l’avvenire della nostra civiltà.
Oggi il nemico che minaccia la chiesa e l’occidente è l’attitudine mentale di chi ritiene che sia finito il tempo di Lepanto e delle crociate e allo spirito del combattimento cristiano contrappone una visione del mondo secondo la quale nulla esiste di assoluto e di vero, ma tutto è relativo ai tempi, ai luoghi e alle circostanze. E’ questo il relativismo denunciato da Giovanni Paolo II quando nelle sue encicliche “Splendor Veritatis” ed “Evangelium Vitae” parla di quella “confusione del bene e del male, che rende impossibile costruire e conservare l’ordine morale dei singoli e delle comunità” (SV n. 93). La battaglia contro il relativismo in difesa delle radici cristiane della società, a cui ha chiamato Giovanni Paolo II e oggi invita Benedetto XVI, è una battaglia in difesa della nostra memoria storica, senza la quale non c’è identità nel presente, perché è sulla memoria che si fonda l’identità degli uomini e dei popoli. Ma le radici cristiane non appartengono solo alla memoria o alla storia: esse sono viventi perché il Crocifisso, che le riassume, non è solo un simbolo storico e culturale, ma è una fonte attuale e perenne di verità e di vita, di sofferenza e di lotta.
La chiesa ha nemici, anche se noi tendiamo a dimenticarlo perché abbiamo perso quella concezione militante della vita cristiana, fondata sulla Croce, che ha sempre caratterizzato il cristianesimo. La perdita di questo spirito militante è la conseguenza dell’edonismo e del relativismo in cui sono immersi purtroppo anche molti uomini di chiesa. Benedetto XVI ha parlato spesso di minoranze “creative”; potremmo aggiungere “militanti”, perché quella in corso è una guerra culturale e morale in cui ci si affronta in termini di principi di concezioni del mondo. La storia del resto è fatta da minoranze militanti e anche Zizola appartiene a una di esse. Si può militare per il bene o per il male, in un campo o nell’altro, ma solo chi milita lascia il suo segno nelle vicende storiche.
Non si illuda Zizola: si può e si deve sfuggire, per quanto possibile, allo scontro delle armi, ma non si può sfuggire allo scontro delle idee. Egli stesso ne brandisce una come una clava che vorrebbe abbattere sulle teste dure dei cristiani fondamentalisti o “lepantiani”. D’altra parte, le idee che non si scontrano, non si “incontrano”, ma si fondono, formando a loro volta nuove idee all’insegna dell’indifferentismo e del sincretismo.
La chiesa è una società soprannaturale che ha la missione di annunciare una Verità salvifica e liberatrice. Essendo un’istituzione immersa nel mondo si serve, come è giusto, anche di strumenti politici e diplomatici, ma la politica per lei è mezzo, mai fine. Giuliano Ferrara nel Foglio del 7 giugno lo ha ben visto. Non bisogna confondere un viaggio diplomatico, come è stato quello recente del Papa a Cipro, con il messaggio teologico e spirituale che la chiesa ha il dovere di annunziare.
Nell’omelia a Nicosia, il 5 giugno, Benedetto XVI ha peraltro sottolineato che il legno della Croce non è semplicemente un simbolo privato di devozione, non è un distintivo di appartenenza a qualche gruppo all’interno della società, ma è un segno di speranza, di amore, di vittoria. “Un mondo senza Croce – ha detto – sarebbe un mondo senza speranza”. Anche un mondo senza spirito di crociata sarebbe un mondo senza speranza, perché significherebbe la rinunzia alla lotta per fare della Croce la salvezza di un mondo in rovine.
«Il Foglio» del 13 giugno 2010

Nessun commento:

Posta un commento