27 maggio 2010

Zombie tra noi. E sono figli nostri

Chi non studia e non fa. Una sfida
di Umberto Folena
Non incedono ciondolanti al crepuscolo nei viali deserti. Non bramano carne umana, al massimo aspirano a uno spriz o a un birrino.
Sono pure sorridenti e non se la prendono con il loro magro destino forse perché ignorano il concetto di futuro e quindi il destino gli fa un baffo. Sono i due milioni di giovani zombie che vivono in mezzo a noi, così ben amalgamati da sfuggire a tutti tranne che ai sofisticati scanner dell’Istat.
Nel 2009 il 21,2 per cento degli under 29 si trovavano fuori dal circuito formazione-lavoro. Due milioni di zombie, appunto, che non studiano né lavorano però mangiano, bevono, si vestono, si divertono (abbiamo il sospetto che molti di costoro siano quelli che sostano sotto le nostre finestre a far cagnara fino all’alba, per render vive città altrimenti morte: grazie!), insomma consumano, che poi è quel che conta per considerare se stessi esseri viventi: homo sapiens un corno, da tempo è scoccata l’ora dell’homo consumens.
Gli americani hanno inventato un acronimo per definirli: Neet, ossia Not in education employment or training (niente istruzione, né occupazione, né preparazione). E comunque si inseriscono nel fenomeno arrembante dei giovani mai autonomi che si aggrappano alla famiglia d’origine come bradipi. Dal 1983 i 30-34 enni sono triplicati, dall’11,8 al 28,9 per cento; incalzano i 25-29 enni, passati dal 34,5 al 59,2. E tra tutti i Neet, quelli che si sono arresi e di cui non si occupa più nessuno, come se fossero un problema in meno, la schiuma della società. Da guardare con compatimento, come se la colpa fosse tutta loro, degli zombie.
Ma siamo davvero sicuri che se la siano cercata? In qualche misura, sì. L’era del facile alibi («È colpa della società») è tramontata. Ma troppe contraddizioni sembrano indicare in certo mondo adulto il virus che ha trasformato in zombie i suoi figli. Francis Ford Coppola, in una recente intervista, lamentava: «Amo l’Italia ma mi rende triste. Perché è un Paese in cui i padri divorano i figli, si prendono tutto senza lasciar nulla e i giovani devono andarsene per avere un’opportunità». C’è chi se ne va riempiendo lo zaino – bagaglio magro, pochi indumenti, il pc – in territori ove tutto è possibile e ogni alba è un’opportunità; e chi se ne resta, asserragliato in qualche territorio misterioso collocato tra la propria stanza e un bar, dove nulla è possibile e la vita è un’infinita Fortezza Bastiani senza Tartari, un’attesa del nulla. Si può partire anche restando nella propria città; e si può restare decidendo che non vale la pena studiare, non tanto il master in economia ma anche soltanto una specializzazione tecnica per un nobilissimo lavoro manuale, da artigiano raffinato, che tanto manca alle città e alle aziende; piuttosto decidendo se il tatuaggio etnico vale la pena farselo sul gluteo destro o sinistro. Perché il mondo adulto inocula i suoi virus e crea zombi facendo credere alle sciacquette diciottenni di turno che per fare l’attrice non occorre studiare e sudare per anni, calcando palcoscenici e facendo fatica e fatica e fatica, ma bastano due settimane di lezione e un look gradevole, oltre alla compiacenza di mass media guardoni.
È evidente che gli esclusi si accumulano come in una discarica anonima. Due milioni di Neet; qualcuno sarà tutt’altro che disimpegnato, anzi impegnatissimo in attività malavitose e nel lavoro nero. Altri staranno magari tentando di aprirsi un varco verso il futuro. Ma la gran massa è lì, affranta e giuliva, lontana dal cuore e dalla mente degli adulti. Strani zombi, che anziché azzannare, si fanno azzannare. Ma non si può più far finta di non vedere, non ci si può rassegnare.
«Avvenire» del maggio 27 2010

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