10 maggio 2010

Psicologia degli anticristo

Dato mille volte per liquidato, il Figlio vince anche grazie a chi lo dà per morto
di Umberto Silva
A stento sopravvissuto ad Auschwitz, Gesù Cristo rischia di morire di vergogna per i peccati dei suoi sacerdoti e, comunque vada, Emil Ludwig Fackenheim fa capire che non è più Lui l’evento centrale dell’umanità ma la Shoah. Per l’Europa oggi Cristo non è più necessario, non ha mai messo radici e addirittura sta diventando fastidioso, al punto di toglierLo dalle scuole, che non riempia di strane idee la testa dei bambini. Alcuni caritatevoli divulgatori cercano di renderLo più simpatico suggerendo che sarebbe nato da un centurione romano di nome Pantera, un donnaiolo il cui sangue caldo avrebbe indicato al figliolo la via della Maddalena. Uno di noi, insomma, e ringrazi il cielo. Ma davvero Cristo è defunto e le sue spoglie si stanno dissolvendo nei liquami del Secolo? Nietzsche, il profeta della morte di Dio, trionfa?
Calma signori. Capisco che il posto è ambito, ma bisogna avere certi numeri. Fin dall’inizio dei tempi Lucifero insegna che cercare di sostituirsi a Dio comporta rovinose cadute, e cent’anni fa lo stesso Nietzsche ha avuto modo di sperimentarlo: il suo genio perse forza proprio quando osò sfidare Cristo, finendo nel delirio. Pazzia cercare di uccidere in un colpo solo il Padre, il Figlio e lo Spirito; cosa rimane poi? Gesù Cristo, naturalmente, Lui mai si dilegua, Lui sempre generoso. Al punto che, impietosito dal destino di Nietzsche, quale viatico alla sua discesa nell’abisso gli donò l’ispirazione per il libro estremo, quell’ “Ecce Homo” che inaugura la serie delle moderne imitazioni di Cristo su cui campano i più accaniti anticristi. Difficile spuntarla con Uno così.
Siamo davvero sicuri di stare assistendo alla secolarizzazione del cristianesimo, oppure silenziosamente il Secolo si sta cristianizzando? Laddove meno lo si aspetta Cristo risorge, difficile riconoscerLo, disdegna i luoghi accreditati e preferisce gli inferni. Lo si trova nelle galere cubane ma anche nelle bestemmie di un disperato. Non ha paura di niente Cristo, per diritto o per rovescio, en plein soleil o in controluce, è sempre tra noi. Solo l’occhio pigro e mortifero si accontenta di Satana, della fatuità con cui il principe del mondo lo intrattiene; l’occhio audace osa invece addentrarsi fin nella tenebra per salvare gigli nel fango e perle tra i porci. Osiamo guardare in faccia il Figlio, accogliendolo in tutta la sua violenza, perché è Cristo, più vivo che mai, carico di doni e di interrogativi. Lui è “l’ospite inquietante”, non quel nichilismo di cui parlano Nietzsche e i suoi discepoli. Il Figlio mina le certezze, porta un pensiero che mai ci darà pace. Il nichilismo viceversa non inquieta affatto, è rassicurante, dice che tutto è accaduto e nulla più accadrà, invita a tirare a campare, assecondando la voglia di morte eterna che in ciascuno sibila frasi come vanitas vanitatum, nihil novi sub sole, mors tua vita mea e così via sogghignando. Il nichilismo invita a sbarazzarci del Figlio il prima possibile onde non venirne disturbati: “Non perdere tempo, non aspettare che cresca, più lui diventa grande più tu diventi piccolo, uccidilo sul nascere!”. Quel Figlio che irrompe tra i dottori del tempio – tutti noi! – confondendone la saccenza.
Il figlicidio è sempre di gran moda, ma Cristo non muore. Agonizzerà fino alla fine dei tempi, un agone in cui gioca la Sua partita contro quel nulla che per darci un tono chiamiamo tutto. Il soffio divino non si è esaurito nella Creazione; dalla grotta di Betlemme spira soave il soffio del Figlio insieme a quello del bue e dell’asino; ci riscalda e ci spinge fuori da noi stessi. Niente è come sembra e neppure com’è: nel vortice della trascendenza le cose non stanno mai così. Mai il Secolo vince, tantomeno quando si aduna ligio, rispettoso, fanatico. Il Cardinale di Siviglia sta sempre sul chi vive, sa che Cristo è tra la folla. Vede i Suoi occhi, ode la Sua voce sempre più vicina. Lo sente addosso, dentro, ordina di bruciarLo, ed è lui stesso, il Grande Inquisitore, a bruciare d’amore. Il Secolo nulla può contro Cristo poiché di Lui è ebbro, anche se si finge astemio. Cristo è in ogni tempo e in ogni luogo, tranne là dove si vorrebbe che fosse. Niente di più nobile e soprattutto di più mobile del Crocefisso, come ben sapeva Ernest Hemingway ammiratore dell’ardito toreador che si schiaccia contro la staccionata, la sola muleta tra lui e le corna della Bestia. Mai parola è ultima, mai cosa è finita e sempre si trasforma. Nell’Ultima Cena il sangue è vino, corpo il pane. Miseramente Giuda sta tradendo Cristo nel mentre divinamente Cristo tradisce se stesso, nel miracolo della nominazione consegnandoSi all’altro. “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo che è dato per voi… Bevetene tutti, questo è il mio sangue dell’alleanza…”. A noi tutti Cristo si offre anima e corpo, affinché di Lui possiamo fare scempio o esempio. Con le più semplici parole, con un sobrio cenno, Gesù indica quel che sempre avviene nel reale, la grazia che ci sfiora e di cui a volte miracolosamente riusciamo a stringere un lembo. Sicché ogni Sua parola, ogni Suo gesto il Secolo, più o meno ignaro, è sospinto a emulare, a volte con esiti sorprendenti.
Già nella prima giovinezza mi colpì l’imitazione dell’ “Ultima Cena” fatta da un pittore che in vita sua fece mostra del più frigido ateismo, Marcel Duchamp. Un giorno dell’anno 1917 costui, nominandola tale, creò un’opera d’arte: “Fountain”. Un pisciatoio naturalmente, non un’acquasantiera, ma Cristo ha benedetto anche questo discolo discepolo; Lui disprezza i farisei mentre i ladroni Lo stuzzicano assai. Insomma, duemila anni fa Gesù ha fondato l’arte contemporanea inventando Dada; così, en passant. Per tutto ringraziamento quanto snobismo oggidì! Il Secolo si fa bello davanti al pisciatoio e deride l’ostia, che gli fu modello di trascendenza. Ma Gesù non perde tempo ad arrabbiarSi con i denigratori, ha altro da fare, risorgere. Anche noi; cerchiamo di non ripetere il peccato che Cioran rimprovera a Pascal, quello di dedicare più tempo ed energie ai nemici di Cristo piuttosto che a Lui, l’artista dei miracoli. Non sono facili a farsi. Attenzione, dice Cristo-Duchamp, solo l’artista, l’inventore, l’audace, ha l’autorità di trasformare in opera d’arte un pisciatoio; l’artista e non chi per tale si spaccia, il truffatore o il vanesio. Fervente quanto inconsapevole cristiano, rigoroso combattente dello stampo di un Ignazio di Loyola – che non a caso proclamò: “Il bianco è nero se lo dice la chiesa” – Marcel Duchamp non pose fine all’arte, tutt’altro, ne alzò smisuratamente la scommessa, stabilendo confini taglienti come lame ma invisibili al punto da ingenerare uno straripante possibilismo. Sicché, dal fatale momento in cui la transustanziazione platealmente irruppe nell’arte, quanta difficoltà!
Tolta la sicura del mestiere, della bottega, della figurazione, della tela e del pennello, scaraventati gli artisti nell’insidioso oceano dell’apparire, quanto eroismo per stagliarsi dal pantano della gratuità. Gratuità che è la cifra del nichilismo dilagante nonché il marchio di contraffazione di tanta sedicente arte contemporanea quando, simoniaca, spaccia il feticcio per brandello di reale, il sintomo per la sua elaborazione, l’inventario per l’invenzione. L’ingratitudine verso il cristianesimo genera un arrivismo che non tollera il debito. Già nel Secolo dei Lumi, al tramonto della grande pittura della chiesa trionfante, quanta fretta di dire che la decadenza di quell’arte testimoniava tout court la fine del cristianesimo. Chateaubriand e il romanticismo lo riportarono in auge ma oggi ai vernissage, tra i cashmere di Ralph Lauren e le carte di credito Onnipotence, si teme che Dio possa fare la parte del barbone e pertanto si evita d’invitarLo; vanno assai di moda invece le eternità in formaldeide di “Daimon” Hirst. Eppure noi tutti, mondani e cardinali, siamo fin da ora invitati all’Hospital de la Caridad di Siviglia, ai vernissage – sapienti vermi! – di Juan de Valdés Leal.
Ahimè, sono ricaduto nel peccato pascaliano! Difficile resistere alla tentazione. L’Avanguardia Transustanziazionale è tradita da nugoli di presuntuosi giuda, nel mentre il Vitello d’oro del mercato la calpesta sotto i suoi zoccoli. Vedendo il “Rabbit” di Jeff Koons o un manga pop di Murakami come non avvertire il ghigno di un diavoletto meccanico, anaffettivo e antipatico? Colpa dei galleristi e dei curatori delle mostre? Anche, ma il loro compito non è facile; che fatica distinguere il poco grano dal molto loglio senza cedere al ricatto dell’horror vacui, quando la stessa vastità di un museo invoca il riempimento, lo invocano il pubblico e il mercato. Per tener fede al mandato di Cristo occorre avere imparato ad amare la Bellezza, pronti a riconoscerla e ad accoglierla scacciando gli spacciatori. “La Bellezza è un’Annunciazione che si presenta con un messaggio misterioso” rivela Raffaele La Capria.
Per intenderlo non basta guardare un’opera, neppure fissamente e per anni, come si ostina il protagonista del libro di Thomas Bernhard, “Antichi Maestri”. Più la si guarda, più si cerca di decifrarla, più l’opera scompare lasciando il posto alla malevolenza. Non basta guardare, occorrono l’accortezza delle vergini sagge della cattedrale di Strasburgo e il folle volo dell’occhio e del cuore che in un dettaglio sorprende Dio; occorrono prontezza e puntualità. Quella mattina di gennaio tempestava ma a tutti i costi volevo vedere la “Resurrezione” di Piero della Francesca, anche per capire per quale motivo Aldous Huxley l’avesse incoronata “il più bel dipinto di ogni tempo”. Dopo trenta chilometri di grandine arrivai davanti al museo civico di Sansepolcro: la porta era chiusa, decisamente sbarrata. Ecco, pensai, così fa l’arte, la vera arte, quella che atterra e suscita, affanna e consola; e ride. Meglio una porta sbattuta in faccia al ritardatario, una soglia che il guardiano impedisce di varcare perché per anni e anni il pretendente è stato pigro e distratto, o forse pensava tale immagine non accessibile ai suoi occhi… – meglio, dicevo, una porta chiusa che tanti musei spalancati, colmi di ogni ben di Satana. Tali diventano i più preziosi dipinti quando gettati in una mischia insensata, templi colmi di quella mercanzia contro cui si avventò il Nazareno, per una volta adirato. L’unico desiderio che sorge verso quelle opere costrette a una forzosa coabitazione e contro le quali si nutre un odio spaventoso mascherato da falsa ammirazione, è di sfregiarle. Solo al MoMA si sta un po’ meglio, ma perché siamo a New York e ce ne freghiamo.
Per fare cristianamente coesistere più opere in una stessa stanza in modo tale che non si insultino l’una con l’altra e tutte insieme non ci tormentino, che fare? Ancora una volta l’insegnamento cristiano arriva là dove mai si penserebbe. Poiché l’Eden ci è interdetto, dobbiamo attraversare il purgatorio, pur sempre la nostra migliore risorsa. Per giungere al cospetto di una tela di Rothko si dovrebbe superare un percorso di guerra. La sacralità dell’arte passa attraverso quella “porta stretta” di cui parla Gesù, porta aperta sull’ignoto e visibile solo agli audaci che hanno deciso di fare della propria vita – objet trouvé esposto alle tempeste del nulla – un ready-made. A guardia della porta propongo due arcangeli di sperimentato valore: il Tempo e il Denaro. Una sola opera per lo sguardo di un unico interlocutore; cento euro per tre minuti. Cento euro non dieci: non si può entrare nella “Città che sale” così come in un bar; occorre fare penitenza, mettere i soldi da parte. Per trenta denari è sconcio ambire a una puttana di Toulouse-Lautrec, nemmeno per una sbirciatina. Tre minuti: frustiamo i nostri neuroni, il tempo non è eterno, non sta a disposizione, non possiamo farne quel che vogliamo, come voleva credere il dormiente che pensava che il Cristo di Piero della Francesca fosse morto solo per lui e rimandasse la Resurrezione per aspettarlo nei secoli dei secoli. Il tempo esiste, questa è la chance.
L’Uomo dei topi va da Freud chiedendogli un certificato di demenza, che gli permetta di fare il morto vita natural durante, Freud lo invita a sedersi. Il topo comincia a parlare dimentico dei suoi rituali tesi ad asservire il tempo e non la smette più di ascoltare quelle parole che egli stesso dice e che mai aveva pensato di udire. Non c’è chi davvero sia morto, questa è la Divina Provvidenza; si fa il morto, il vampiro e lo zombi, ma anche a costoro Iddio concede d’incontrare una fanciulla che fa dimenticare l’orologio. E all’alba… Coraggio vampiri, c’è gloria per tutti. Che cerchiate di sottrarre il Crocefisso alla vista degli scolari temendo ch’essi possano amarLo, dice quanto Cristo sia vivo. Che per ogni prete stupratore che spunta stappiate col dentino avvelenato una bottiglia di Veuve Clicquot, testimonia che non solo le radici cristiane sono ben salde ma anche il tronco su cui pisciate, e i rami, le foglie, e il vento che le muove.
Non sforzatevi troppo, signori, la chiesa può morire, Cristo no. “E’ solo un mito”, sorridono gli snob, fingendo d’ignorare che niente è più reale, corpo e sangue, di un mito. Come la lancia di Parsifal la verità di Cristo trapassa i secoli superbi e sciocchi dove gli eventi clamorosi giacciono in putredine. Anche se tra cent’anni nessuno più si ricordasse di Gesù, Lui continuerà a risorgere in ciascuna parola, immagine, opera, in ciascun moto del cuore.
«Il Foglio» del 9 maggio 2010

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