05 maggio 2010

La morte del romanzo (e di tutto il resto)

Scomparsi Dio, Marx, la poesia, le ideologie. E anche le mezze stagioni
di Paolo Di Stefano
Abbiamo vissuto giorni migliori, indubbiamente. Ma che sia morto proprio tutto, è improbabile, anche perché noi siamo qui, fino a prova contraria, abbastanza vivi e abbastanza vegeti, salvo controindicazioni dell'ultim'ora. Questa settimana, per esempio, è morto per l'ennesima volta il romanzo. Ed è inutile che Walter Pedullà (Il Messaggero, 23 aprile) esprima le sue rimostranze contro questa «bufala eterna»: il romanzo è morto e non se ne parli più. Del resto, a quanto pare, ad aver subìto un colpo mortale è stata la letteratura nel suo insieme, sostituita dalla paraletteratura da classifica, quella «al polistirolo», «abbozzata», «di plastica», secondo le definizioni di Davide Morganti, intervistato da Pietrangelo Buttafuoco (Il Foglio, 23 aprile). Si è poi esaurito anche il romanzo di genere vero e proprio, che, come avverte, nello stesso servizio, lo scrittore Massimiliano Parente, «deve vedersela con i cazzuti sceneggiatori delle serie televisive». Per Parente è morto, o quasi, persino lo scrittore-scrittore, abbattuto da una nuova categoria, quella dell'«e scrittore»: «giornalista e scrittore», «blogger e scrittore», «opinionista e scrittore» ...
La morte della critica è ormai fuori discussione: infatti, se Mario Lavagetto nel 2006 aveva scritto un pamphlet intitolato Eutanasia della critica, a quest'ora i suoi funerali devono essere ampiamente avvenuti, come sospetta Alessandro Baricco. Sull'agonia della poesia, se ce ne fosse bisogno, ha scritto parole pressoché definitive Alfonso Berardinelli. Nel frattempo - nei giorni scorsi - è stata decretata l'estinzione imminente dei giornali, almeno a giudicare dalle molte onoranze funebri celebrate, a Perugia, in occasione del Festival internazionale di giornalismo. Sempre nella tragica settimana appena trascorsa, in coincidenza con la Giornata mondiale del diritto d'autore voluta dall'Unesco, è risuonato alto il canto del cigno non solo per il diritto d'autore, ma anche (e non potrebbe essere diversamente) per il libro cartaceo, giustiziato dall'e-book, e per la libreria tradizionale, spazzata via dalla vendita online. Con Raimondo Vianello, si sa, è scomparso per sempre un certo tipo di satira: un' eleganza, uno stile, che non vedremo più se non nelle retrospettive nostalgiche che di sicuro verranno. I commentatori più radicali (e tristi) hanno sancito, con l'ultimo «che barba, che noia», il tramonto irrimediabile della comicità. Se a ciò si aggiungono la morte di Dio e di Marx, la fine (a sua volta decrepita) della storia, la dipartita delle ideologie, il declino della politica, l'agonia del cinema, la decadenza dei costumi e della religione (è vero o no che non c'è più religione?), la scomparsa delle mezze stagioni, che cos'è tutto questo affannarsi che si sente in giro? Se il romanzo è morto, che cosa sono tutti quei volumi nelle librerie (più o meno tradizionali) e nelle classifiche? Se la politica agonizza, che cosa sono tutti questi talk show in cui non si parla d'altro? Se la comicità è naufragata, perché ridiamo tanto? Vuoi vedere che, come sospettò il poeta (ahimé defunto, ovvio) Eugenio Montale, «siamo già morti senza saperlo»? O forse, aveva ragione Woody Allen, ci sentiamo solo poco bene.
«Corriere della Sera» del 27 aprile 2010

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