04 maggio 2010

E Prometeo vada a scuola di filosofia

Il filosofo Maiocchi
di Luigi Dell’Aglio
«Prometeo è stato liberato, ma forse ancora non conosce tutta la forza del fuoco. È drammaticamente urgente una formazione degli scienziati che permetta loro di valutare a fondo tutte le implicazioni etiche, culturali, economiche e sociali delle proprie ricerche. Ormai l’intreccio tra scienza e tecnica è troppo profondo. Lo scienziato deve rendersi conto dell’enorme peso che grava sulle sue spalle: non può più scaricarlo sulla tecnologia. L’avvenire dell’umanità dipende da lui». Roberto Maiocchi, ordinario di Storia della Scienza alla Cattolica di Milano, con la sua esperienza professionale e di vita è la dimostrazione che scienza e filosofia sono entrambe essenziali per l’uomo e che nessuna delle due può fare a meno dell’altra. Maiocchi è ingegnere elettronico (con laurea al Politecnico) ma è stato affascinato dalla filosofia e a questa disciplina ha dedicato un brillante percorso accademico. Quando ha dovuto fare la scelta, non si è nascosto i rischi: abbandonava una carriera da ingegnere, «sicura e remunerativa», per una da filosofo «incerta ed economicamente depressa». Nei primi anni può coltivare gli studi filosofici perché sfrutta contemporaneamente il diploma di ingegnere, per far fronte alle «volgari necessità materiali». Poi passa totalmente sulla riva di Aristotele e Kant ma opta per un’area di confine, strategica, dalla quale può osservare il rapporto tra filosofia e scienza e vedere in una luce nuova anche i suoi studi passati.

Professore, la formazione globale degli scienziati è carente perché nella scuola viene ridimensionato il ruolo delle materie umanistiche?
«Per il Liceo classico (che è pur sempre il canale principale di formazione della futura classe dirigente) il progetto di riforma non prevede tagli all’insegnamento del latino e del greco, né un ridimensionamento dello studio dei classici. Anzi, fatti i conti, mi sembra che questi ne ricavino un leggero vantaggio. L’Italia resta pur sempre il solo Paese al mondo in cui nell’istruzione secondaria si studiano, con un certo impegno, greco e latino. Naturalmente occorre poi vedere in che modo si affrontano i classici: molte volte tutto si riduce allo studio della lingua, utile ginnastica della mente, che però è lontano dall’essenza dell’umanesimo».
La carenza si registra più in alto, a livello universitario?
«Preoccupa la riduzione delle materie umanistiche operata nei corsi destinati alla formazione scientifico-tecnica. Se si considerano poi le caratteristiche dell’insegnamento nelle università tecnico-scientifiche, si deve ammettere che nella formazione dello scienziato e del tecnico l’insegnamento delle scienze umane ha un ruolo del tutto marginale. In questo campo il confronto internazionale non è certo favorevole all’Italia. In molte università scientifiche straniere esistono dipartimenti dedicati alla storia e alla filosofia della scienza. Nelle nostre facoltà scientifiche, invece, gli esami filosofici o storici sono una rarità, e i corsi di storia della scienza e di filosofia della scienza si tengono nelle facoltà di filosofia, sono cioè rivolti a studenti che nulla sanno di scienza».
È l’enorme potere acquisito dalla scienza a rendere necessaria una formazione globale, anche umanistica, dello scienziato? In caso contrario, più che anti-umanistica, la scienza potrebbe risultare «anti-umana»?
«È in corso un processo storico profondo e irreversibile. Oggi è impossibile mantenere la distinzione tra scienza pura e tecnologia, che è sempre stata una separazione comoda e rassicurante per gli scienziati: i quali potevano giustificare i loro studi come ricerca pura e disinteressata, scaricando su altri soggetti (militari e capitalisti) la responsabilità di tutte le conseguenze spiacevoli per l’umanità che potevano derivarne. Per la verità, la scoperta dell’energia atomica aveva cominciato a erodere questa posizione, suscitando un vivace dibattito. Allora molti si sono chiesti se sia eticamente corretto studiare un problema scientifico pur sapendo che questa ricerca potrebbe in seguito essere impiegata per la costruzione di armi di distruzione di massa. I rapporti sempre più numerosi e complessi che nel secondo dopoguerra si sono venuti a creare tra ricerca di base, attività industriali, sviluppo degli armamenti e pratica medica, hanno reso via via sempre più evanescente il confine tra ricerca pura e applicata. È stato lanciato un nuovo termine, quello di "tecno-scienza", per indicare che la scienza si identifica con la tecnica, o meglio l’attività scientifica è ridotta alla pratica operativa. La logica della scienza diventa la logica del successo pragmatico, scompare ogni altro orizzonte che non sia quello del "fare tutto ciò che si è imparato a fare". E, se non è più lecito per nessuno dichiararsi scienziato "puro", se ogni progetto di ricerca è inesorabilmente portatore di conseguenze nella sfera delle applicazioni, diventa un obbligo valutarne preliminarmente l’impatto sull’ambiente, sulla società, sull’uomo».
La maggior parte degli scienziati rivendica la più assoluta libertà di ricerca.
«Appare chiaro che spesso la decisione di intraprendere o meno un progetto scientifico implica un giudizio morale. Le attività scientifiche non sempre sono assiologicamente neutre. Decidere di dedicarsi allo studio della clonazione umana, ad esempio, è un atto che non può essere giustificato con il semplice appello alla "libertà di ricerca" come valore supremo: tante e tali sono le questioni etiche e religiose che quella scelta mette in gioco che solo uno scienziato "disumano" e grottesco, per ora fortunatamente immaginario, potrebbe scrollarsele di dosso con un’alzata di spalle».
Il nuovo umanesimo è contro lo scientismo, non contro la scienza.
«Il primo umanesimo (che fu un movimento italiano) era antiscientifico. I primi umanisti non avevano interessi naturalistici. Rimase ben vivo un filone di umanesimo letterario antitetico alla scienza, che ha poi avuto una fortuna ininterrotta (ancora oggi, specialmente in Italia, moltissime persone colte, che si vergognerebbero di confessare la propria ignoranza in merito al futurismo o alla musica dodecafonica, con autocompiacimento dichiarano di non sapere nulla di Einstein, se non che portasse i baffi). Il motivo è sempre lo stesso: non si riconosce alla scienza la capacità di rispondere alle domande fondamentali sull’origine e lo scopo della vita. Così però si finisce per confondere la scienza con lo scientismo, il quale è una filosofia che afferma che ogni problema, anche se etico o religioso, debba essere risolto dal pensiero scientifico».
E per fare argine allo scientismo scende in campo il nuovo umanesimo?
«A me sembra che lo scontro attuale non avvenga, in prima istanza, tra scientismo e umanesimo ma tra un umanesimo laico, che difende i valori in nome dell’autonomia dell’uomo, e un umanesimo religioso che difende valori (non necessariamente differenti dai precedenti) in nome della concezione dell’uomo quale creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Tuttavia – e questo è un punto su cui si fa spesso confusione – l’umanesimo laico non è necessariamente scientista, può essere anche relativista».
Con quale differenza?
«Lo scientismo afferma che solo la scienza è capace di produrre verità, che le sole verità accessibili all’uomo sono quelle scientifiche; dunque si contrappone inevitabilmente alle altre forme culturali che si proclamano portatrici di verità, in primo luogo le religioni. Il relativismo, all’opposto, parte dall’idea che neppure la scienza è in grado di raggiungere una conoscenza obiettiva, che ogni pretesa verità altro non è che l’espressione di un punto di vista parziale, soggettivo. È evidente che si tratta di due atteggiamenti culturali che possono certo allearsi costituendo un fronte unico antireligioso, ma partendo da presupposti antitetici».
«Avvenire» del 4 maggio 2010

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