18 aprile 2010

Se perdi la lingua, non vedi più il mondo

Ogni anno muoiono 25 idiomi: la metà di quelli parlati sul pianeta morirà entro un secolo. Così sparisce non solo un patrimonio culturale, ma anche la «visione filosofica» che ogni singola etnia possiede
s. i. a.
Si calcola che ogni anno muoiano venticinque lingue e di questo passo un po’ meno della metà delle lingue del mondo, circa seimila, entro questo secolo sarà sparita. L’entità del fenomeno è allarmante ed è da tempo che se ne parla anche nelle sedi ufficiali. Uno dei primi libri sull’argomento fu quello di David Crystal, Language Death (Oxford University Press, 2000), più volte ristampato. Ma da allora le pubblicazioni in merito si sono moltiplicate e oggi i linguisti si interrogano sulle conseguenze di questa catastrofe culturale che non ha precedenti nella storia dell’umanità. Dopo il bel libro di K. David Harrison, When Languages Die (Oxford America, 2008), che porta un sottotitolo eloquente «The Extinction of the World’s Languages and the Erosion of Human Knowledge» ecco quello, non meno importante, di Claude Hagège, On the Death and Life of Languages (Yale University Press, 2009), e ultimo Dying Words: Endangered Languages and What They have to Tell Us di Nicholas Evans (Wiley-Blackwell, 2010).
La lingua è essenziale per la conservazione di una cultura in tutti i suoi aspetti, specie in quelli che non hanno una manifestazione «materiale». Quando muore una lingua va perduto un patrimonio di conoscenze inestimabile. Nomina si pereunt, perit et cognitio rerum, scriveva il naturalista danese del Settecento, J.C. Fabricius. Le centinaia di lingue che stanno scomparendo e quelle che sono già scomparse differiscono profondamente fra loro ed ognuna ci consegna una visione diversa del mondo. Le lingue indoeuropee, come è noto, classificano le parole in base ai generi (maschile, femminile e neutro), che vengono estesi, piuttosto convenzionalmente, agli oggetti del mondo fisico: ad esempio il sole è maschile in italiano e femminile in tedesco. Ma molte altre lingue distinguono unicamente tra nomi animati, che possono riferirsi anche a fenomeni naturali, come ad esempio il vento, e inanimati. Il tamil (India meridionale) si basa, più filosoficamente, sulle capacità intellettuali, e distingue nomi «razionali», che designano ad esempio uomini e dèi, e «non razionali».
In altre lingue più o meno “esotiche” il quadro di riferimento cambia radicalmente. Ne dà un’idea il cinese che classifica le parole in base alle dimensioni (grandezza, lunghezza e sottigliezza) degli oggetti designati, estese per traslato anche ad entità astratte, come ad esempio i sentimenti, gli stati d’animo, ecc. In asmat, uno dei molti idiomi della Nuova Guinea, i nomi vengono distribuiti in cinque classi, definite in base alla posizione dei loro referenti: la prima classe comprende esseri od oggetti eretti (alberi, persone), la seconda fissi (casa, donne), la terza giacenti, la quarta galleggianti, la quinta volanti. Qui la pietra di paragone è il mondo naturale e i fatti dell’esperienza vengono organizzati e interpretati in relazione a esso.
Nelle lingue bantu le classi arrivano fino a 24 e rappresentano una sorta di “scienza” implicita nell’espressione linguistica, in base alla quale gli esseri umani vengono distinti da quelli non umani, i liquidi dai solidi, i manufatti dalle piante, ecc... Non si deve credere, però, che l’appartenenza a una determinata classe sia sempre logica e prevedibile. Il sistema bantu disegna dei comparti, per così dire, “ecologici”, in cui, ad esempio, animali erbivori come la capra stanno insieme con la flora. Lo stesso accade in Lardil (una lingua australiana quasi estinta), dove le specie non vengono distinte come organismi, ma in relazione all’habitat: non si parla di piante o animali, ma di «creature di terra, mare e aria».
La diversità linguistica si manifesta non soltanto nel lessico, ma anche nella grammatica. Come scriveva Edward Sapir «le lingue differiscono non per quello che possono esprimere, ma per quello che devono». Se si chiede a un parlante del Central Pomo (California settentrionale) come si dice «è piovuto», risponderà letteralmente «pioggia è caduta». Ma questa frase non verrà mai usata in una normale conversazione, in cui si dovrà precisare la fonte dell’informazione. Perché l’espressione sia corretta occorre scegliere tra cinque particelle che, aggiunte alla forma verbale, indicano se si tratta di esperienza personale o di sentito dire, se si è visto piovere oppure si sono sentite le gocce sul tetto, se si è trattato di una semplice deduzione (c’era del bagnato) o meno. Questa casistica (grammaticale) non è casuale, ma corrisponde a quegli aspetti dell’esperienza che i parlanti hanno espresso ripetutamente, considerandoli più rilevanti di altri.
Il tofa - parlato da 731 persone nel sud della Siberia in tre sperduti villaggi raggiungibili solo in elicottero - possiede un suffisso cosiddetto olfattivo che non esiste in nessun’altra lingua e che permette di derivare da un nome un aggettivo: ad esempio da ivi («renna») ivi-sig («odoroso di renna»). L’odore è così importante per i parlanti che è diventato una particella grammaticale o, come dicono i linguisti, una parola funzionale. In alcune lingue salish (America settentrionale) gli aggettivi/pronomi di quantità cambiano a seconda se si riferiscono a oggetti, a animali o a persone. Un domanda come «quanti sono?» deve essere formulata in tre modi diversi.
È evidente che tutto ciò induce i parlanti a rivolgere l’attenzione ad aspetti del mondo circostante che passano inosservati in altre lingue. Quanta di questa informazione si perde con la morte di un idioma? La grammatica rappresenta il distillato di un’esperienza collettiva irripetibile: pensiero prefilosofico, secondo Gustave Guillaume, emergente attraverso i secoli o i millenni. È ciò che fa di ogni lingua un unicum e ne rende irreparabile l’estinzione.
«Il Giornale» del 18 aprile 2010

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