29 aprile 2010

Quei comunisti che remavano contro

Rosa Luxemburg pensava più alle cinciallegre che al Partito, Victor Serge "tradì" il Comintern per i romanzi, Aleksandr Bogdanov si diede agli studi scientifici. Una storia dei compagni "eretici"
di Tommy Cappellini
Negli
A bocce ferme, anzi disintegrate, ci si potrebbe chiedere se i cosiddetti «comunisti eretici» abbiano «sbagliato in grande», sprecando la loro intelligenza nella critica costruttiva di qualcosa che non aveva troppe chance di successo storico, o se invece abbiano «sbagliato in piccolo», svolazzando come falene intorno a un totalitarismo che, alla prova dei fatti, si dimostrava ogni volta molto più intelligente e bruciante di loro nel fare politica attiva, fin tanto che la faccenda poteva durare (magari rinvigorita periodicamente a suon di legnate e gulag).
È destino di molti intellettuali engagé finire in una simile ambiguità, ma quelli comunisti ci sono cascati come nessun altro (indice di una maggior «credibilità umanistica» del comunismo o del fatto che alla fine i «nazi» della premiata ditta Carl Schmitt&C. erano più accorti?). A ogni modo, la loro storia commovente, spesso tragica, è ripercorsa in un possente volume in uscita oggi nelle librerie: L’età del comunismo sovietico. Europa 1900-1945 (Jaca Book, pagg. 674, euro 40, a cura di Pier Paolo Poggio). È il primo di una serie di cinque volumi intitolata «L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico»: l’idea alla base di tale ragguardevole impresa editoriale è fare un ritratto, come spiega Poggio nella presentazione, «di figure, movimenti ed esperienze non riconducibili alle forme politiche egemoni nella storia del secolo, anzi alternative e critiche nei confronti di queste, anche se per la loro irriducibile diversità potevano pervenire unicamente a una convergenza in negativo». In altre parole, si tratta di raccontare la biografia intellettuale «non di modelli o idoli, ma di una realtà eterogenea, ancora ricca di vita e possibilità».
Domanda: si intende forse una possibilità di natura politica? Se è così, c’è da avere qualche dubbio. I capitoli più intensi e fecondi di questo tomo, infatti, sono quelli dedicati a Rosa Luxemburg nella sua variante più anarchica («Spero di morire sulla breccia: in una battaglia di strada o nel penitenziario. Ma il mio io più intimo appartiene più alle mie cinciallegre che ai compagni»), a Victor Serge, «cronista del disastro sovietico», a Walter Benjamin (imprescindibile per lucidità e disincanto), a Brecht e alla Scuola di Francoforte, oltre che alla triade «Silone, Koestler, Orwell» e a Simone Weil e Martin Buber. Possiamo salvare anche i capitoli dedicati ad Alexandre Kojève, Georges Bataille e Wilhelm Reich.
Convince poco, invece, l’«ontologo» Gyorgy Lukàcs presentato come correttore/oppositore di Stalin: l’autore di L’anima e le forme pensava che sarebbe bastato rifiutare sulla carta la naturalizzazione della società (cioè la tendenza ad assimilare la storia sociale al funzionamento dei processi naturali) per impedire a Stalin di trasformare l’economia in un complesso autarchico, rinchiuso in una legalità autonoma, con individui trattati «come semplici epifenomeni di forze impersonali» (è andata esattamente al contrario). Dai nomi che abbiamo citato appare chiaro che se c’è ancora una fecondità latente del comunismo non è dunque di natura politica, bensì filosofica e letteraria.
Prendiamo per esempio Victor Serge, morto (forse avvelenato da emissari del Partito) su un taxi a Parigi il 17 novembre 1947. Suo è uno dei libri da non perdere del Novecento, Memorie di un rivoluzionario (un long seller pubblicato in Italia da e/o): generazioni di lettori ne sono rimasti incantati fin dalle prime pagine. Figlio di esiliati russi a Bruxelles, socialista a tredici anni, anarchico a quindici, giornalista a diciassette (firmava Le Rétif, Il Refrattario), arrivò a Pietrogrado nel 1919 per partecipare alla fondazione del Comintern, ma appena otto anni dopo, in occasione del XV congresso del Partito in cui tutti (da Zinovev a Kamenev) capitolarono davanti a Stalin, lo imprigionarono. Il carcere fu il suo spartiacque esistenziale: tutta l’attività politica a cui fino allora si era dedicato gli sembrò futile e, un pomeriggio che era ricoverato in ospedale, sentì che era meglio scrivere opere durature: «È importante lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa, però può succedere che la testimonianza rimanga». Scrisse in francese (in URSS non gli avrebbero pubblicato più una riga) una serie di romanzi ormai divenuti dei classici all’interno di quella letteratura apolide novecentesca così tipica dei fuoriusciti sovietici: Il caso Tulaev, Gli anni senza perdono, La città conquistata.
Simile a quella di Victor Serge è l’esperienza di Aleksandr Bogdanov (1873-1928), autore di romanzi utopici (La stella rossa, in Italia per Sellerio, L’ingegner Menni) che, agli albori della letteratura fantascientifica russa, vendettero centinaia di migliaia di copie. Bogdanov fu un altro comunista che, dopo gli strali che Lenin gli indirizzò, prese consapevolezza che scrittura romanzesca e ricerca scientifica sarebbero durate più a lungo dell’Unione Sovietica, e vi si dedicò esclusivamente. Oltre ai romanzi, scrisse il poderoso Tectologia, o scienza generale dell’organizzazione (più volte ristampato o antologizzato: anticipò idee della cibernetica e servì come vademecum scientifico per la pianificazione economica dell’URSS) e diversi saggi sulle trasfusioni del sangue, di cui fu pioniere (morì nel corso di un esperimento condotto su se stesso).
Che dire, poi, dei «classici» Simone Weil, Arthur Koestler, Ignazio Silone, George Orwell? Si tratta di scrittori talmente liberi da qualsiasi ortodossia dettata dal Politburo che parlare di loro come di «eretici del comunismo» pare sempre un po’ riduttivo, quasi un’inclusione forzata. Non si può dire lo stesso di molti altri eretici proposti in L’età del comunismo sovietico, che scontarono un’eccessiva fedeltà al Partito - all’«Idea», direbbe Nabokov - anche quando da questo venivano traditi o, peggio ancora, torturati.
«Il Giornale» del 29 aprile 2010

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