14 aprile 2010

Quando i padri della patria volevano stracciare la Carta

di Giuseppe Bedeschi
Per molto tempo la sinistra ha presentato la Costituzione italiana come un Moloch intoccabile, come un documento perfetto e meraviglioso in ogni sua parola, in ogni sua virgola, e come tale, appunto, intangibile. Chi osava discuterne alcuni aspetti, veniva presentato come un nemico giurato della democrazia, come un golpista. Il motivo profondo di tanta devozione (da parte di chi vedeva nell’Unione Sovietica e nel suo impero un «mondo nuovo e più giusto»!) era da cercare nel fatto che, come disse Togliatti alla Costituente, la Costituzione era nata da «una confluenza di due grandi correnti: da parte nostra un solidarismo (…) umano e sociale; dall’altra parte un solidarismo di ispirazione ideologica e di origine diversa, il quale però arrivava nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi». Con queste parole Togliatti esprimeva una cosa verissima: che la Costituzione italiana era il risultato della convergenza di due orientamenti: quello della sinistra marxista e quello della sinistra cristiana guidata da Dossetti e La Pira. Ciò si percepiva fin dal primo articolo della Costituzione, il quale recita che «l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro».
Tale formulazione si prestava, e si presta, a molte ironie (si sono mai viste repubbliche fondate sull'ozio?). Ma le ironie sono fuori posto, poiché la formula usata aveva un significato preciso: e cioè che la repubblica italiana doveva avere come propria spina dorsale quei partiti e quei movimenti che dicevano di incarnare gli interessi delle «classi lavoratrici» (e quali fossero tali partiti e tali movimenti è inutile specificare). Questa ispirazione non individualistica (liberale), bensì collettivistica e solidaristica (comune sia a Togliatti che a Dossetti), della nostra Carta costituzionale, fu colta assai bene e duramente criticata da Luigi Sturzo, il quale rilevò che la prima parte della Costituzione, quella che trattava dei diritti e dei doveri, pur contenendo disposizioni felici, era soverchiata da altre disposizioni, di segno diverso, che invocavano l’intervento dello Stato ad ogni pie’ sospinto. «Purtroppo - diceva Sturzo - di statalismo l’attuale schema di Costituzione puzza cento miglia lontano… L’ingerenza dello Stato (burocrazia, partiti, deputati, commissari del popolo e chi più ne ha più ne metta) sarà tale che il cittadino dovrà cominciare a pensare come difendersi dallo Stato che si va creando». La posizione sturziana è la prova migliore (se pure fosse necessaria) che quella Carta non è certo il Moloch intoccabile che per tanto tempo è stato accreditato dai costituzionalisti e dai giuristi della sinistra: nata in una precisa temperie storico-politica, tanto lontana dal tempo in cui viviamo, essa ne porta i segni evidenti.
Del resto, può essere utile ricordare che alcuni esponenti di grande rilievo dell’antifascismo non comunista ebbero un atteggiamento tutt’altro che reverente verso i lavori dell'Assemblea Costituente. Particolarmente impietoso Gaetano Salvemini, che nelle sue Lettere dall’America scrisse: «Ho letto il progetto della nuova Costituzione. È una vera alluvione di scempiaggine. I soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare o prima o poi quel mostro di bestialità». E ancora: «I comitati centrali dei tre famosi partiti di massa (PCI, PSI, DC) si erano proposti solamente di avere nella Costituente dei servitori e non dei collaboratori»; «una congregazione cieca e passiva, disciplinata da una mezza dozzina di camorristi sedenti a Roma, come sono ormai i tre partiti così detti “di massa”». E in una lettera a Ernesto Rossi del 16 maggio 1947, Salvemini rincarava la dose: «Mi meraviglio che tu trovi strano che io prenda gusto a leggere le scempiaggini dei Costituenti. Da quelle scempiaggini sta per uscire la costituzione più scema che sia mai stata prodotta dai cretini di tutta la storia dell’umanità. Ti par poco farsi un’idea di quell’Himalaya di somaraggini? (…) Bisogna far tesoro di tutte le bestialità commesse in quest’ultimo anno per mettere in guardia gli italiani perché non le commettano un’altra volta». Ma se il linguaggio di Salvemini era particolarmente salace e colorito, gravi riserve venivano espresse anche da altre personalità dello schieramento antifascista: da Mario Paggi, per il quale la Costituzione era «vecchia prima di nascere», a Piero Calamandrei, che vi ravvisava «una totale mancanza di coraggio e di fantasia», poiché i Costituenti avevano «preferito orientarsi sui modelli costituzionali di cento anni fa, piuttosto che sulla realtà politica dell’Europa e dell’Italia di oggi».
Giudizi severi, come si vede, sinceri e spregiudicati, in radicale contrasto col conformismo che sarebbe venuto dopo.
«Il Giornale» del 14 aprile 2010

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