25 aprile 2010

«Memoria condivisa senza monopolizzazioni»

«Non è accettabile la riduzione della Resistenza in schemi di parte e neppure l’intento di sottovalutare la partecipazione dei credenti: un apporto che fu determinante»
di Bruno Olini
L’Italia celebra il 65° an­niversario della Libera­zione e la fine del se­condo conflitto, rendendo innanzitutto il doveroso omaggio a tutti coloro che sacrificarono la vita per ridare libertà al Paese. U­na celebrazione quanto mai si­gnificativa, con il richiamo a quei valori che hanno caratterizzato un periodo drammatico della no­stra storia nella lotta al nazifasci­smo, nella ribellione alla prepo­tenza, all’ingiustizia, alla negazione della dignità della perso­na.
Malgrado il tempo trascorso, non possiamo ignorare il travaglio di uomini che hanno saputo lotta­re fino a dare la propria vita per gli ideali che ritenevano giusti; le grandi sofferenze di intere popo­lazioni che hanno pagato un prezzo altissimo; il dramma di molti giovani strappati ai loro af­fetti, costretti a impugnare le ar­mi; l’Olocausto di milioni di e­brei nei campi di sterminio. E­venti vissuti da un popolo che a­nelava a vivere in pace, con di­gnità e nella solidarietà.Vivere u­na nuova vita, fondata sui valori di libertà e di eguaglianza, di ri­pudio della guerra e nella mani­festata volontà della collabora­zione internazionale.
Nessuno può ignorare che l’an­tifascismo operante durante il re­gime mussoliniano fu, indub­biamente, la ragione 'storicisti­ca' in cui si sprigionò la forza propulsiva della rivolta e che og­gi costituisce un baluardo di ga­ranzia democratica contro qualsiasi totalitarismo. Tuttavia la Re­sistenza non fu solo un glorioso fatto d’armi ma, soprattutto, un travolgente moto di popolo, un grande movimento di ideali e di azioni; la presa di coscienza di u­na nazione nelle giornate più tri­sti della sua storia; una rivolta che vide impegnati uomini e donne uniti dall’ansia di poter essere cit­tadini di una società libera, in no­me di quella democrazia senza la quale non può esserci giustizia sociale.
Ecco perché, a coloro che anco­ra oggi si chiedono se la Resi­stenza fu 'guerra giusta', va ri­sposto che lo fu, in quanto non mirava alla conquista di territo­ri e neppure ad abbattere un ti­ranno, dato che con la caduta del fascismo il 25 luglio 1943 e la co­stituzione del governo Badoglio, il futuro di Mussolini era segna­to. Ma fu lotta ai soprusi, alle in­timidazioni, ai massacri, alle de­portazioni. Era la ribellione dell’oppresso contro l’oppressore. Certamente fu una guerra dura, con il coinvolgimento di intere popolazioni, con i sacrifici, gli or­rori e gli errori della guerra. E an­che dopo, malauguratamente, non mancarono episodi gravi di violenza e di vendetta che però nulla avevano a che fare con la Resistenza.
A chi parla di 'guerra civile', va osservato che guerra civile si ha quando una popolazione si spac­ca su due fronti contrapposti con forze del tutto o quasi equivalenti. Non basta, infatti, che vi sia dall’altra parte un certo numero di connazionali per poter defini­re una guerra di liberazione 'guerra civile'. E, per la Resi­stenza, il nemico da combattere era il tedesco invasore, anche se, in minima parte, fu guerra fratri­cida, per l’esistenza della Repub­blica sociale di Salò al servizio dei nazisti.
Non c’è dubbio che anche senza la Resistenza, le forze anglo­americane che al momento del­l’armistizio (8 settembre 1943) già erano sbarcate nel Sud, ci a­vrebbero liberati. Ma se Alcide De Gasperi, quale presidente del Consiglio, nell’immedato dopo­guerra potè parlare a fronte alta ai governanti dei Paesi vincitori lo si deve soprattutto a chi, in quel drammatico periodo, scelse di stare dalla parte giusta. Va perciò detto che non è accettabile la monopolizzazione della Resi­stenza in schemi di parte e nep­pure l’intento di taluni storici che tendono a sottovalutare la partecipazione dei cattolici: un ap­porto che fu consistente, non ra­ramente determinante, comun­que sempre essenziale.
Il passato – non lo dimentichino le nuove generazioni – va studia­to e meditato, anche perché la memoria è l’anima profonda di un popolo. Perché, allora, po­tremmo chiederci, talune cele­brazioni previste dal nostro ca­lendario, quali la Giornata della Memoria (27 gennaio) a ricordo della liberazione dei deportati di Auschwitz e delle vittime dell’O­locausto; l’anniversario della Li­berazione (25 aprile); la Festa del­la Repubblica (2 giugno); la Gior­nata delle Forze Armate e dell’U­nità nazionale (4 novembre), per­ché non dovrebbero avere l’una­nime partecipazione e condivi­sione dei cittadini, a comprova della ritrovata pacificazione na­zionale? Guardandoci intorno, dove sembra prevalere un clima di continua conflittualità, non è fuori luogo affermare che c’è bi­sogno di un risveglio delle co­scienze, del recupero di una comprensione gene­rale, del rispetto delle opinioni altrui, del dialogo costruttivo per il bene comune, di u­na 'memoria condivi­sa', per costruire, gior­no per giorno, l’edifi­cio della libertà e del­la giustizia sociale. A­stenersi da questo im­pegno, significhereb­be offendere il passato e com­promettere il futuro.
*segretario dell’Associazione nazionale partigiani cristiani (ANPC)
«Avvenire» del 25 aprile 2010

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