10 aprile 2010

Ma l'usignolo Keats non fu un «utopista»

di Roberto Mussapi
«Qui giace uno il cui nome è scritto sull’acqua»: questa l’epigrafe che il poeta inglese John Keats dettò all’amico Severn, spirando, all’età di 26 anni, in piazza di Spagna, a Roma, dove oggi il visitatore rivede le stanze in cui cercò la salvezza e trovò l’agonia il giovane medico malato di tisi. Era giunto in Italia sperando di risanare i polmoni col clima felice. Mentre i suoi sodali Byron e Shelley svolazzavano l’uno nell’incanto di Venezia (nuoto, gondole, balli, donne), l’altro nel golfo di Lerici (interminabili giornate in barca, a parlare coi venti), Keats, giungeva tardi in Italia, nella luce di Roma, e lì moriva. Dalla conoscenza dell’opera di questi tre poeti, la poesia italiana non avrà che vantaggi. Diversi, ovviamente, ma accumunati da quell’energia dell’anima poetante che fonda il vero romanticismo, quello del vento e dell’ebbrezza celeste, non quello italiano tardivo, un po’ patriottico, verdiano, salottiero, enfatico.
Nello specifico John Keats è l’autore della lettera più importante mai scritta da un poeta sulla poesia: quella in cui teorizza «l’impoeticità del poeta», che è l’essere meno poetico del creato, dovendo essere nei suoi versi ogni voce di acqua e uccello, ogni volto di fiore, o persona, dovendo immedesimarsi, annullandosi, per esistere in quanto autore. Non a caso diceva di avere sulle spalle, sempre Shakespeare, il poeta che più di tutti distribuisce e annulla il suo io in infinite persone.
A questa lettera si riferisce in un saggio famoso Mario Luzi riaprendo da qui la costola dantesca, non petrarchesca, della poesia italiana, il poeta immerso e cancellato nella creaturalità del mondo, anziché col mondo conflittuale. Keats è il poeta di versi incancellabili, pensiamo all’«Ode a un usignolo», in cui coglie nell’uccello invisibile, perché sempre nascosto nel fogliame, impersonale perché piccolo, marroncino e non bello, onnipresente perché canta di giorno o di notte, solo obbedendo all’ispirazione, il modello del poeta, impersonale e perenne.
Mentre attendiamo in Italia il film «Bright Star», dedicato appunto al poeta, regia di Jane Campion (nelle sale il 23 aprile), esce Bright Star. La vita autentica di John Keats di Elido Fazi (Fazi, pagine 286, euro 15), dove l’autore (che non è un omonimo, ma lo stesso editore), prosegue la sua ricostruzione appassionata della vita e dell’opera del grande poeta. In questo caso ripercorrendone gli ultimi anni di vita dal 1816 fino alla morte avvenuta nel 1921. Il libro mescola e alterna materiale delle lettere e delle poesie, giustamente perché nella realtà le une sono in relazione con le altre. Mentre si apprezza la chiarezza narrativa e il difficile ma piuttosto riuscito incastro di poesie e lettere nella prosa narrante (meglio così che tentare una sintesi alchemica che solo un altro poeta può fare), lascia perplessi l’intenzione di sviluppare dall’opera di Keats un sistema filosofico-religioso. Chi conosce non enfaticamente la poesia sa che ogni grande autore esprime una visione della vita complessa, che sfugge a lui stesso, perché la sua vocazione e il suo compito non consistono nel fondare un sistema, una setta, una religione, ma nello svelamento del mondo, nella cifrata frequentazione del mistero. Trasformare il grande John Keats in un una sorta di utopista, o fondatore religioso, porta fuori strada. L’usignolo non pensa a fondare l’usignolità, ma canta. E quelli come Keats lo ascoltano, lo capiscono, lo replicano. Nella voce e nel segreto.
«Avvenire» del 10 aprile 2010

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