11 aprile 2010

L’«Amor fati» è l’esatto opposto del fatalismo oggi tanto di moda

di Giuseppe Conte
Se si comincia a leggere dal fondo, il nuovo libro di Marcello Veneziani, Amor fati (Mondadori, pagg. 242, euro 18), appare come quello di un saggista brillante, reattivo, attento alla dinamica sociale e alle mitologie contemporanee. E il lettore può deliziarsi con le pagine su Michael Jackson visto come Ogm umano, o come sintomo di una condizione post-umana dove tecnica, spettacolo, farmaci si alleano per manipolare la vita. O quelle su Che Guevara, un Don Chisciotte tragico come quello teorizzato da Unamuno, su Alain Delon e la bellezza rubata dal tempo, su Ingmar Bergman bambino cosmico (come è spesso un genio), o su Albert Camus e la sua straordinaria rivolta metafisica contro la condizione umana.
Il libro di Veneziani è però innanzi tutto una lunga, complessa e molto dotta riflessione filosofica sull’idea di fato. Sulla vana fuga dal destino. Si comincia con il contrapporre al destino il desiderio, che esalta il soggetto, che indica sempre una mancanza, e che può esprimersi in volontà di potenza o in spirito di conquista. L’Amor fati invece ci appare man mano assenza di confine, apertura, accoglienza di ciò che non ci appartiene, orizzonte che trascende sempre la nostra soggettività, inattingibile dai nostri desideri, scarto ontologico tra essere e non essere, soglia tra reale e possibile, amore metafisico della realtà, serenità degli inquieti. Una concezione simile del fato si propone, paradossalmente ma non troppo, come un antidoto al fatalismo contemporaneo, che in realtà è una semplice resa, un triste credere che tutto è già stato detto, scritto, deciso. E una concezione simile del fato è anche un baluardo contro il nichilismo, che «non ha liberato l’umanità dal potere, ma il potere da ogni umanità».
Con riferimenti molto precisi a grandi filosofi, da Nietzsche, imprescindibile, a Oswald Spengler, da Hegel a Schopenhauer, da Heidegger a Simone Weil, Veneziani mette a confronto con il destino temi come quello dell’identità, «destino che abbiamo alle spalle», quello del caso, anagramma di caos, alienazione radicale e reificazione, quello della rivoluzione, costruttiva contro gli automatismi, distruttiva proprio quando pretende di abolire il fato. Anche comunismo e fascismo vengono esaminati dal punto di vista del loro rapporto con il destino. Il primo vuole sradicarlo, come residuo del sacro, finendo poi sconfitto sul suo stesso terreno, il materialismo; il secondo lo vive rovinosamente come volontà di potenza e di supremazia. Il Veneziani polemista conservatore viene fuori quando scrive che il progresso è una idea «servile», e che senza destino anche i diritti umani appaiono una forma di «ipocrisia retorica». E il polemista tout-court quando affianca all’ateo devoto «l’ateo idiota», con allusioni a personaggi non difficili da identificare.
In certe pagine, poi, affiora il memorialista, che ricorda con un rimpianto struggente le domeniche di una volta, che ci racconta di un 30 agosto di tanti anni fa quando da piccolo scopre che i pochi centimetri di cemento e mattoni che lo separano dalla salma della madre di un amico al piano di sotto della sua casa lo riparano invano dalla verità fatale della morte. Veneziani scrive in una prosa spesso ellittica, densa, concettosa. Capace di virtuosismi come una riscrittura del Padre Nostro, in cui Dio viene invitato a liberare se stesso «dal niente». Perché il male assoluto è nichilismo, la mancanza del sacro, la negazione che dilaga nel mondo.
«Il Giornale» dell'11 aprile 2010

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