18 aprile 2010

Impreparati all'emergenza

di Mario Deaglio
In un’economia globalizzata i processi produttivi assomigliano a catene efficientissime con moltissimi anelli che avvolgono il mondo e che assicurano al consumatore prodotti di straordinaria tecnologia a prezzi straordinariamente bassi. Occorre purtroppo aggiungere che qualsiasi avvenimento in grado di spezzare anche uno solo di questi numerosissimi anelli rischia di fermare tutto.
Negli ultimi trent’anni abbiamo costruito un sistema sempre più efficiente senza accorgerci che ogni incremento dell’efficienza comportava un aumento della fragilità e che le conseguenze di tale crescente fragilità potevano risultare sempre più devastanti. Per questo bastano pochi giorni di eruzione di uno sperduto vulcano dal nome impronunciabile in uno sperduto Paese per rendere concreta la minaccia che la produzione di tutto il pianeta sia gettata nel caos.
I nostri discendenti forse ci accuseranno di un’enorme arroganza intellettuale: quella di aver preso come verità assoluta la «normalità» dei funzionamenti, di aver costruito modelli della realtà sempre più complessi in grado di spiegare «tutto», di aver proclamato la morte dell’incertezza e il trionfo del calcolo del rischio, la morte dell’irrazionale e il trionfo della razionalità. E invece il primo decennio del nuovo secolo può essere letto precisamente come la rivincita dell’irrazionalità e dell’incertezza dal terrorismo delle Torri Gemelle all’uragano Katrina, dalla crisi finanziaria alla crisi del trasporto aereo che, grazie al vulcano dal nome impronunciabile, improvvisamente ci troviamo davanti.
Caratteristiche di questa crisi sono non solo la sua non prevedibilità con le nostre attuali conoscenze, l’impossibilità di fare alcunché per risolverla ma anche l’estrema difficoltà di valutarne le conseguenze. Vulcanologi ed economisti possono ben guardarsi negli occhi e riconoscere la rispettiva ignoranza: i primi non sanno bene che cosa esce dal vulcano e per quanto tempo continuerà a uscire, gli altri non sanno bene quanto male tutto ciò potrà fare all’economia.
Se dovesse risolversi nello spazio di pochi giorni, l’eruzione islandese sarà ricordata per qualche progetto di vacanze saltato, qualche viaggio di lavoro annullato o spostato e qualche migliaio di tonnellate dei prodotti più vari consegnati in ritardo. Oltre alle persone direttamente coinvolte, a soffrirne saranno soprattutto i bilanci delle compagnie aeree e delle società di assicurazione, il che introdurrà in ogni caso un ulteriore elemento di debolezza nel quadro di una ripresa economica asfittica, certo non gradevole ma in nessun modo determinante.
Se però il blocco o l’irregolarità del trasporto aereo dovesse prolungarsi - diciamo per qualche settimana - da questi aspetti relativamente superficiali si passerebbe molto rapidamente a conseguenze molto più profonde. Ombre lunghe si stenderebbero sulla stagione turistica mondiale, soprattutto di località lontane e a buon mercato che vivono di turismo aereo di massa. In questo per l’Italia ci sarebbero probabilmente i guai maggiori; e potremo aspettarci la carenza o il ritardo nella consegna di parti indispensabili dei prodotti più vari con la comparsa di improvvise anomalie produttive in questo o quel settore. Certo, le imprese saprebbero alla fine trovare aggiustamenti: i trasporti di terra, il turismo vicino a casa, i fornitori non troppo distanti potrebbero compensare la debolezza del traffico aereo. Lo farebbero, però, solo dopo una flessione in ogni caso sensibile, che oggi sarebbe azzardato cercar di quantificare, del prodotto lordo.
L’impotenza di fronte a questo fenomeno naturale presenta molti parallelismi con un’altra impotenza divenuta evidente in questo stesso week-end che riguarda una grande istituzione finanziaria dal nome molto pronunciabile e molto pronunciato, Goldman Sachs. Un’indagine giudiziaria ha rivelato che all’interno della grande banca d’affari americana c’era un cuore truffaldino e la notizia segue di pochi giorni quella di una società nascosta all’interno di Lehman Brothers. La nube oscura che si alza dal vulcano islandese è, in definitiva, il simbolo della nostra ignoranza e della nostra impotenza: la mancanza di conoscenze geologiche e meteorologiche fa il paio con la mancanza di conoscenze della realtà finanziarie che è alla base della debolezza attuale della nostra economia. In entrambi i casi il mondo è stato colto di sorpresa. Il pennacchio del vulcano islandese è il simbolo delle nostre scarse conoscenze.
«La Stampa» del 18 aprile 2010

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