17 aprile 2010

Il giudice della sentenza Google ci spiega che per essere più libero, Internet ha bisogno di regole

di Oscar Magi
Mi è stato richiesto un breve intervento in merito alla vicenda “sentenza Google”, alla libertà di Internet ed all’uso che se ne fa, nonché una risposta ad alcune domande, ad esempio perché e come le norme italiane sulla privacy vadano rispettate anche sul web, se c’è bisogno di controllo, cosa penso che succederà dopo la mia sentenza.
Non sono abituato a commentare le mie sentenze e un giudice dovrebbe parlare al pubblico solo attraverso le stesse: nel caso in questione ho scritto 111 pagine di motivazione a cui rimando chiunque abbia voglia e tempo di misurarsi con la complessità del problema. Mi sembra tuttavia possibile, data la rilevanza mediatica del tema, intervenire brevemente sulle questioni generali che la vicenda richiama e che costituiscono lo “sfondo sociale e culturale” dei fatti di causa (su cui non ritorno, trattandosi, come è ovvio, di vicende ancora non definitive da un punto di vista processuale).
Internet è un “formidabile strumento di comunicazione” tra le persone e, dove c’è libertà di comunicazione, c’è più libertà, intesa come veicolo di conoscenza e di cultura, di consapevolezza e di scelta. Non sempre la libertà personale viene usata tenendo conto dei limiti che essa sempre ha rispetto alle libertà degli altri, che va salvaguardata soprattutto quando si tratta di soggetti deboli, e cioè di persone che, per situazione sociale o fisica o di età, hanno bisogno di un supplemento di tutela, attesa la loro fragilità esistenziale. In questo senso la legge sulla cosiddetta privacy (DL 30 giugno 2003 n. 196) costituisce un baluardo nei confronti di tali soggetti (e non solo di questi) proteggendone la divulgazione dei cosiddetti “dati sensibili”. La legge in questione è operativa in Italia dal 1996 ( Legge 31 dicembre 1996 n.675, legge poi modificata del DL indicato), ed è applicabile senza dubbio alcuno a chiunque si trovi a “ trattare” i dati sensibili di cui abbiamo parlato.
Il concetto di trattamento del dato è molto vasto e comprende comportamenti che vanno dal “caricamento” dello stesso alla “diffusione” e finanche la “cancellazione”. Per le cosiddette “piattaforme web” operanti in Italia, quindi, non vi è possibilità di dubbio sulla necessità di rispetto della legge in questione.
Il controllo di cui si parla sui dati caricati dagli “uploaders” non è un controllo di tipo preventivo, sia per l’impossibilità materiale dello stesso, sia per la mancanza di una norma di legge ad hoc;
Per ora (e sottolineo, per ora) il concetto di controllo si esprime in una corretta informazione agli utenti degli obblighi di legge a cui vanno incontro caricando i dati non propri.
In un futuro non lontano i “content providers” (e cioè le piattaforme web che non si limitano a mettere in contatto gli utenti, ma che “gestiscono” i dati da altri caricati) potrebbero (e dovrebbero) essere sottoposti a qualche forma di regolamentazione, soprattutto se la loro attività è, in qualche modo, collegata a fini di profitto. Cosa succederà dopo la mia sentenza? Non ne ho idea: è una sentenza di primo grado che, immagino, sarà appellata e che finirà in Cassazione: vedremo il seguito giurisprudenziale.
«Il Foglio» del 16 aprile 2010

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