13 aprile 2010

Amnesty a braccetto col “jihad difensivo”

di Giulio Meotti
Amnesty International è stata per anni una fonte vitale di consolazione per molte migliaia di uomini e donne che hanno subito incarcerazione e torture per la loro coraggiosa dissidenza. E’ riuscita a ottenere la liberazione di molti prigionieri politici, mettendo alla gogna odiosi regimi oppressivi. Ma la fotografia pubblicata dal quotidiano inglese Daily Mail risplenderà a lungo come una macchia viva nella storia di Amnesty.
Si vede Moazzam Begg, detenuto di Guantanamo e fanatico sostenitore dei talebani, davanti a Downing Street, sede del primo ministro britannico, assieme ai sorridenti responsabili di Amnesty. Begg era in visita come testimonial dell’organizzazione dei diritti umani. I capi di Amnesty conoscevano le simpatie terroristiche del loro ambasciatore tagliagole. Avrebbero dovuto chiedere scusa e la vicenda sarebbe stata archiviata come l’ennesima figuraccia del già discreditato jet set umanitario. Ma Amnesty ci ha appena spiegato che la “jihad difensiva” non è “antitetica” con la battaglia dei diritti umani. E lo ha detto in risposta a una petizione sul rapporto di Amnesty con Cageprisoners, la ong fondata dal fondamentalista Begg e che si batte per il rilascio di conclamati jihadisti e assassini. Moazzam Begg fu catturato dagli americani in Afghanistan, dove dei talebani ancora oggi dice che è “il miglior governo possibile in quel paese”.
Rinchiuso a Guantanamo, Begg è poi rientrato in Inghilterra per iniziare la battaglia di Cageprisoner. Oggi Begg chiede il rilascio di gente come Abu Hamza, un veterano della guerra santa in Afghanistan, dove ha perso un occhio e le braccia mentre maneggiava un grosso quantitativo di esplosivo. Quell’Abu Qatada che fu l’ispiratore di Mohamed Atta, uno dei capi dell’11 settembre, nel cui appartamento di Amburgo furono trovate decine di audiocassette del clerico giordano. Abu Qatada, “l’ambasciatore di Bin Laden in Europa”, che nel 1999 lanciò una fatwa per uccidere gli ebrei. Oppure la scienziata pachistana laureatasi al Mit di Boston, Aafia Siddiqui, da poco condannata per aver cercato di ammazzare degli agenti americani. Citando sempre da Amnesty International, “Moazzam Begg e altri nel gruppo Cageprisoners hanno idee molto chiare, ad esempio se si debba parlare con i talebani o sul ruolo del jihad in chiave difensiva. Queste idee comportano che non dobbiamo lavorare con queste persone? La nostra risposta è no”. Parole che da sole dicono di un netto scadimento di Amnesty International.
A denunciare Amnesty sono state tre coraggiose attiviste femminili come Amrita Chhachhi, Sara Hossain e Sunila Abeysekera: “Il jihad difensivo è usato dai talebani per legittimare la decapitazione dei dissidenti, gli attacchi alle minoranze, alle scuole, gli attacchi ai siti religiosi e la fustigazione pubblica delle donne”. Legittimando il jihad e i talebani, Amnesty si ricopre di vergogna e del dolore sparso dai terroristi in Afghanistan. Lo scopo precipuo della nobile organizzazione di Peter Benenson era quello di difendere chi veniva oppresso per le proprie opinioni. Amnesty oltrepassa ora la sottile linea rossa che separa la difesa dei diritti umani anche per i terroristi dall’apparire compiacenti o collusi con le loro idee mostruose che seminano morte. L’apologia di Amnesty spinge la ollusione fra umanitarismo e jihadismo a livelli perfino grotteschi. E si dimenticano le vittime che avrebbero bisogno dell’Amnesty di una volta.
«Il Foglio» del 3 aprile 2010

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