17 aprile 2010

Alto medio basso

La distinzione tra culture non è più netta. Più che l'oggetto cambia lo sguardo, impegnato o disattento. E per un udito disattento si può usare Wagner come colonna sonora dell'Isola dei famosi
di Umberto Eco
Nel supplemento culturale di 'Repubblica' di sabato scorso, Angelo Aquaro e Marc Augé, in occasione dell'apparizione del libro Mainstream di Frédéric Martel, riprendevano (a proposito di nuove forme di globalizzazione della cultura) una questione che si riapre regolarmente ogni tanto, ma sempre da nuovi punti di vista, e cioè quale sia ormai la linea di discrimine tra Cultura Alta e Cultura Bassa. Se a qualche giovane, che ascolta indifferentemente Mozart e musica etnica, la distinzione può parere bizzarra, ricorderò che il tema era addirittura bollente verso la metà del secolo scorso, e che anzi Dwight Macdonald in un bellissimo e aristocraticissimo saggio del 1960 ('Masscult e Midcult') identificava non due ma tre livelli.
La cultura alta era rappresentata, tanto per capirci, da Joyce, Proust, Picasso, mentre quello che veniva chiamato Masscult era dato da tutta la paccottiglia hollywoodiana, dalle copertine del 'Saturday Evening Post' e dal rock (Macdonald era di quegli intellettuali che non tenevano in casa il televisore, mentre i più aperti al nuovo lo tenevano in cucina). Ma sempre Macdonald delineava un terzo livello, il Midcult, una cultura media rappresentata da prodotti d'intrattenimento che prendevano a prestito anche stilemi dell'avanguardia, ma che era fondamentalmente Kitsch. E, tra i prodotti Midcult, MacDonald poneva per il passato Alma Tadema e Rostand, e per i tempi suoi Somerset Maugham, l'ultimo Hemingway, Thorton Wilder - e probabilmente ci avrebbe messo moltissimi libri pubblicati con successo da Adelphi, che accanto a testimonianze di cultura alta che più alta non si può, allinea autori come Maugham, appunto, Marai e il sublime Simenon (Macdonald avrebbe classificato il Simenon non-Maigret come Midcult e il Simenon-Maigret come Masscult).
Però la divisione tra cultura popolare e cultura aristocratica è meno antica di quanto si pensi. Augé cita il caso dei funerali di Hugo a cui avevano partecipato centinaia di migliaia di persone (Hugo era Midcult o cultura alta?), alle tragedie di Sofocle andavano anche i pescivendoli del Pireo, 'I promessi sposi', appena apparso, ha avuto una serie impressionante di edizioni pirata, segno della sua popolarità - e ricordiamoci il fabbro che storpiava i versi di Dante, facendo arrabbiare il poeta, ma dimostrando al tempo stesso che la sua poesia era nota persino agli analfabeti. È vero che i romani abbandonavano una rappresentazione di Terenzio per andare a vedere gli orsi, ma in fondo anche oggi molti intellettuali raffinatissimi rinunciano a un concerto per vedere la partita.
Il fatto è che la distinzione tra due (o tre) culture si fa netta solo quando le avanguardie storiche si pongono come fine quello di provocare il borghese, e quindi eleggono a valore la non-leggibilità, o il rifiuto della rappresentazione.
Questa frattura si è conservata sino ai tempi nostri? No, perché musicisti come Berio o Pousseur hanno preso molto sul serio il rock e molti cantanti rock conoscono la musica classica più di quanto si pensi, la Pop Art ha sconvolto i livelli, il primato dell'illeggibilità spetta oggi a molto fumetto estremamente raffinato, molta musica degli spaghetti western viene rivisitata come musica da concerto, basta guardare un'asta notturna alla televisione per vedere come spettatori chiaramente non sofisticati (chi compra un quadro via televisione non è evidentemente un membro della élite culturale) acquista tele astratte che i loro genitori avrebbero definito come dipinti dalla coda di un asino e, come dice Augé, "tra cultura alta e cultura di massa c'è sempre uno scambio sotterraneo, e molto spesso la seconda si nutre della ricchezza della prima" (salvo che io aggiungerei: "e viceversa").
Caso mai oggi la distinzione dei livelli si è spostata dai loro contenuti o dalla loro forma artistica al modo di fruirli. Voglio dire che la differenza non sta più tra Beethoven e 'Jingle bells'. Beethoven che diventa suoneria per il telefonino o musica da aeroporto (o da ascensore) viene fruito nella disattenzione, come avrebbe detto Benjamin, e quindi diventa (per chi lo usa così) molto simile a un motivetto pubblicitario. Al contrario un jingle nato per pubblicizzare un detersivo può diventare oggetto di attenzione critica, e di apprezzamento per una sua trovata ritmica, melodica o armonica.
Più che l'oggetto cambia lo sguardo, c'è lo sguardo impegnato e lo sguardo disattento, e per uno sguardo (o udito) disattento si può proporre anche Wagner come colonna sonora per l'Isola dei famosi. Mentre i più raffinati si ritireranno ad ascoltare su un antico vinile 'Non dimenticar le mie parole'.
«L'Espresso» del 15 aprile 2010

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