04 marzo 2010

Le lobby e quell’enfasi sulla «salute riproduttiva»

di Riccardo Cascioli
La «salute riproduttiva» trova la sua consacrazione internazionale alla Conferenza Onu del Cairo su popolazione e sviluppo (settembre 1994) dove viene definita «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale – e non semplicemente assenza di malattie o infermità – in tutte le questioni relative al sistema riproduttivo e alle sue funzioni e processi. Salute riproduttiva implica perciò che le persone siano in grado di avere una vita sessuale soddisfacente e sicura e che abbiano la capacità di riprodursi e di decidere se, quando e come farlo». Una frase quest’ultima che viene chiarita subito dopo nell’enunciazione del diritto «a essere informati e ad avere accesso a sicuri, efficaci, raggiungibili e accettabili metodi di pianificazione familiare» nonché di metodi di «regolazione della fertilità». L’introduzione di questa definizione segna una svolta importante sotto diversi aspetti: anzitutto antropologico, perché in questa concezione salta completamente il rapporto della sessualità con l’amore e il matrimonio; e anche il figlio diventa un diritto, con conseguenze importanti (vedi la manipolazione genetica e la procreazione artificiale). Inoltre con l’impegno a «rendere accessibile la salute riproduttiva nei sistemi sanitari di base» l’introduzione di questo concetto ha l’effetto di 'mascherare' i programmi di controllo della popolazione all’interno dei più ampi servizi sanitari di base. Così che oggi portare aiuti sanitari nei Paesi poveri implica automaticamente rendere accessibili tutti i metodi di controllo delle nascite. Allo stesso modo, con la Conferenza del Cairo si è affermato il concetto di 'diritti riproduttivi', con lo scopo di introdurre l’accesso alla contraccezione e all’aborto tra i diritti umani fondamentali. In realtà tutti i documenti ufficiali dell’Onu affermano chiaramente che l’aborto non è parte della salute riproduttiva, ma malgrado ciò lobby e governi abortisti continuano a cercare di forzare la lettera dei documenti internazionali.
«Avvenire» del 4 marzo 2010

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