04 marzo 2010

Franco Loi, militante deluso. Meglio gli uomini delle ideologie

di Silvio Ramat
Che nella vita di un autentico scrittore non ci siano dati gratuiti o superflui e che un filo di non programmata necessità li leghi obbiettivamente l’uno all’altro, ce lo conferma l’autobiografia di Franco Loi, Da bambino il cielo (Garzanti, pp. 379, euro 29.50, con dvd), sollecitatagli in forma di intervista da Mauro Raimondi. Il libro esce per l’ottantesimo compleanno di un poeta la cui fama non sembra ostacolata, anzi!, dal fatto di usare un idioma alternativo all’italiano: un dialetto milanese, che Loi rimodula da decenni, avendovi còlta al massimo grado quella sostanza di «lingua popolare» che, a parer suo, agisce come «il sottofondo dell’italiano». Se a quest’idioma Loi si affida come al mezzo - al codice - più adatto per lo svolgimento di poemi dove, nel raccontare di sé e di altri, forza la lirica in direzione dell’epos, egualmente inevitabile egli ritiene la scelta dell’endecasillabo, accortosi che la sua «emissione di fiato ha una certa lunghezza, arriva a un certo punto e poi ha bisogno di una pausa». Una pausa che corrisponde - come del resto è nella tradizione italiana - al compimento della misura endecasillabica.
Di padre sardo, Franco nasce a Genova e ci abita, passando però i mesi estivi a Colorno, il paese della madre.
I capitoli che precedono il trasferimento a Milano (1937) hanno l’incantevole pienezza dell’infanzia, con i suoi microcosmi rionali, le amicizie e le rivalità. Immagini che il tempo non sbiadisce riguardano lo sport (Learco Guerra, i saltatori coll’asta, i rossoblù del Genoa che corrono su un prato, distanti...), il teatro, il cinema, il circo... Franco assiste accanto al padre. Di tutto, il ricordo serba i suoni, le tinte, gli odori. È materia sensibile destinata a riversarsi copiosamente nelle poesie. Poi a Milano, «città della vita», Loi si costruisce la propria natura; l’esistenza procede, si educa in un susseguirsi di umani incontri che la drammatizzano e la maturano ma senza strapparla a quel fondo «ingenuo» - la capacità di stupirsi, anche nell’età adulta, di fronte alle cose della vita - da cui scaturisce una poesia eccezionalmente fluida e comunicativa.
L’indice dei nomi, foltissimo, testimonia di quante personalità, famose e non, abbiano incrociato il tragitto di questa esistenza. Spesosi generosamente - in epoche ormai remote - a favore delle classi meno protette, Loi ebbe un’utopica e non felice militanza nel Pci; e via via molti altri impegnativi coinvolgimenti: i più rischiosi durante gli «anni di piombo». Avventure ed episodî che il lettore sistemerà, con l’aiuto dello stesso Loi, nelle debite prospettive. Costante rimane il primato delle persone sulle idee (e sulle ideologie). Anche le persone, sì, possono tradire, ma solamente in una persona - e non in una idea - ci capiterà il bene di trovare una guida, uno «specchio» di noi. In questa autobiografia intervengono, è ovvio, gli scrittori amici, da Sereni a Vittorini e a parecchi altri; ma hanno più rilievo altri personaggi, esterni alla letteratura, e non sempre sono caratteri docili: basti citare don Lorenzo Milani. Poeta, almeno in partenza, fu invece Giulio Trasanna (1905-62), «modesto e illuminato uomo geniale»: «il mio unico maestro», lo proclama Loi, rievocando alcune iniziative sortite da quella «fucina di idee» che era Trasanna.
Nulla ho riferito sin qui della vena onirica e irrazionale che ravviva il «realismo» di Loi poeta, né della vibrazione metafisica di cui s’arricchisce la sua civilissima scrittura (devota più a Dante che non a Petrarca). Lascio al lettore la facoltà di addentrarsi a suo talento nei capitoli di un libro che non solo inquadra e giustifica la poesia di Franco Loi ma anche mette a fuoco i come e i perché della poesia nelle sue motivazioni universali.
«Il Giornale» del 4 marzo 2010

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