06 febbraio 2010

Se in libreria arriva l'ostracismo

La cultura intesa come guerra
di Pierluigi Battista
Chissà, forse sacrificando il mancato introito sull'altare della purezza anti-regime, il libraio milanese che ha annunciato con apposito cartello in vetrina di essere indisponibile a vendere l'ultimo libro di Bruno Vespa si sentirà un eroe di non si sa quale Resistenza. Però l'ennesima frontiera è stata sbriciolata: persino le pagine di un libro diventano qualcosa di infetto contro cui sfoderare l'arma dell'ostracismo. Si dice che leggere sia una salutare attività dello spirito. Si promuovono campagne a favore della lettura. Chi vende libri sogna che si affollino nuovi ed entusiastici acquirenti tra i tavoli e gli scaffali ricolmi di volumi, pregevoli o scadenti, popolari o sofisticati, di editori grandi o piccoli. Ma ora si dice e si annuncia con orgoglio: qui quell'autore è proscritto; qui si legge solo ciò che aggrada al venditore: questa è una trincea nella guerra contro il Male rappresentato dal volume di uno showman televisivo politicamente inaffidabile. Qui è meglio non leggere, piuttosto che far circolare idee malsane. E se domani (come peraltro è accaduto in passato, in particolare negli orridi anni Settanta) i tipografi si rifiutassero di stamparlo, quel volume? E se si diffondesse l'abitudine di vendere solo libri politicamente omogenei a chi sull'insegna ha scritto la parola «libreria»? È la leggenda della piccola libreria vampirizzata dalla prepotenza dei megastore che in questo modo viene picconata. I piccoli librai che sono sempre più rari, che sapevano tutto, che sapevano indirizzare il cliente con cui stabilivano una meravigliosa e perduta complicità, come possono essere rimpianti ora che uno di loro ostenta la censura come arma di lotta, le liste degli esclusi come Nemici da non avvicinare nemmeno attraverso le pagine di un libro? Un tempo il progresso era la moltiplicazione dei libri e delle occasioni di lettura. Oggi, invece, l'obiettivo è non leggere, non far scrivere, non perdonare chi scrive su giornali e per editori che è assolutamente vietato leggere. È di questi giorni la notizia di una rivista letteraria online che ha praticamente accusato di «collaborazionismo» uno scrittore di sinistra, Paolo Nori, reo di aver firmato un articolo per Libero: mica un proclama berlusconiano, no, una recensione dell' ultimo romanzo di Ammaniti (però Mondadori: ci sono cartelli in cui si dice che non si vendono libri Mondadori?). Per non contrarre una fatale infezione, Nori avrebbe dovuto partecipare al cordone sanitario per isolare nientemeno che un giornale d' opinione opposta a quella del sito online, ma pur sempre un'opinione. Avrebbe dovuto non scrivere. Avrebbe dovuto tacere, anziché lasciarsi inquinare dalla materia immonda di cui sarebbe impastata la carta del Nemico. E infatti anche uno scrittore decide di non scrivere e ritirarsi da un impegno che non può più onorare per non incorrere nel peccato di collaborazionismo culturale. Si tratta di Vincenzo Consolo, che ha deciso di non partecipare con un suo scritto a un' iniziativa einaudiana a favore di Roberto Saviano. E che cos'ha di così scorretto e compromettente il povero Saviano da colpirlo con l'arma dell'ostracismo (letterario)? Questa è la colpa: aver ammesso in un' intervista a Pietrangelo Buttafuoco per Panorama di frequentare autori di destra come Ezra Pound e addirittura Julius Evola? Per non farsi contagiare da chi a sua volta si è fatto volontariamente contagiare, Consolo decide di astenersi per punire Saviano della sua indisciplinata propensione a leggere autori democraticamente infrequentabili. E così la paura del contagio induce un libraio a non vendere un volume contagioso, un sito letterario a mettere sul banco degli imputati uno scrittore colpevole di aver consegnato un articolo al Nemico, uno scrittore che fa dietrofront quando scopre che un autore solitamente osannato per il suo coraggioso impegno civile si permette di leggere Pound ed Evola. È l'idea della tribù che per conservare la propria incontaminatezza è disposta a rinchiudersi in una fortezza inespugnabile. È l'idea che la cultura è un'arma di guerra e che chi non si adegua alla sua disciplina va considerato un disertore, se non un traditore vero e proprio. Una regressione a tempi che sembravano sepolti dai calcinacci del muro di Berlino e che invece ripropone una militarizzazione integrale della battaglia culturale, fino al punto che un libraio esibisce con orgoglio dove si annuncia nome, cognome e titolo dell'autore ostracizzato. Non è una tragedia, ma un po' una farsa. Ma la farsa non sempre fa ridere. Spesso, come in questi tre casi, mette molta malinconia.
«Corriere della Sera» del 28 gennaio 2010

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