21 febbraio 2010

Perché tutti danno i numeri

Dalla pubblicità alla politica, è un continuo parlare attraverso dati, statistiche, sondaggi. Serve a «darsi un tono» scimmiottando le scienze matematiche, ma se si bada al vero significato di quelle cifre si scopre che non vogliono dire assolutamente nulla: sono meri artifici retorici
di Edoardo Castagna
Il pubblicitario, che esalta la capacità della tal cremina di ridurre del 73% l’invecchiamento della pelle. Il sindaco, che si pavoneggia delle 143 delibere e delle 84 ordinanze emesse dalla sua giunta. Il climatologo, che ci indottrina sul 48% di probabilità che entro 32 anni i ghiacciai delle Alpi si riducano del 97%. Il sindacalista, che annuncia entusiasta i due milioni di scioperanti che hanno aderito alla sua manifestazione di piazza. Il politico, che dimostra la sua competenza snocciolando uno dopo l’altro i dati del Pil pro capite, del tasso di produttività, dell’inflazione, del cuneo fiscale. Fanno tutti la stessa cosa: danno i numeri. Letteralmente.
Usano cioè cifre e dati non per quello che significano – o dovrebbero significare, il che non è esattamente la stessa cosa –, ma in funzione puramente retorica. Quando, nell’VIII secolo, Paolo Diacono scriveva che nel 643 il re longobardo Rotari aveva ucciso in battaglia ottomila bizantini, sia lui sia i suoi lettori sapevano perfettamente come quel numero andava letto. Se i caduti bizantini fossero stati davvero ottomila, Rotari avrebbe di fatto distrutto l’intero esercito imperiale, sarebbe arrivato fino a Ravenna, a Roma e poi chissà dove; invece, si limitò a conquistare Modena.
Il numero, cioè, era – secondo un uso perfettamente coerente con la forma mentis medievale – semplicemente un simbolo: 'ottomila caduti' voleva dire 'moltissimi caduti', 'una grande vittoria'; la cifra esatta dei morti (al massimo qualche centinaio, secondo la storiografia moderna) non c’entrava nulla. Il numero era un mero artificio retorico. Per paradossale che possa sembrare, oggi noi, postmoderni disincantati del XXI secolo, utilizziamo i numeri esattamente allo stesso modo dei nostri antenati: come simboli, non come indicatori di uno stato di fatto preciso e misurabile. Solo che non lo sappiamo più. La nostra società ha esaltato, quasi fossero la panacea, le scienze naturali, le cosiddette 'scienze esatte' che sui numeri poggiano le proprie fondamenta. Ed ecco che l’uso del numero, all’interno del processo comunicativo, garantisce all’oratore una solida patina di affidabilità, serietà, competenza. Vera o falsa, millantata o no: non importa, non sono quei numeri, sbandierati con tanta sicurezza, a garantirlo. Perché in realtà nessuno o quasi è in grado di capirli. E perché, spesso, non corrispondono affatto alla verità. Alcuni dei numeri che costituiscono il nostro tappeto audiovisivo quotidiano non vogliono dire concretamente nulla. «Il trattamento Taldeitali garantisce +84,6% di azione protettiva, -46% di azione antirughe e +100% di azione setificante». Magnifico (sempre ammesso che 'azione setificante' voglia dire qualcosa). Ma + e - rispetto a che?
Di solito c’è un minuscolo asterisco, che rimanda a una ancor più minuscola notarella: dove si spiega che sono i «risultati di test in vitro» – fatti da chi, non si sa, così come non si sa che cosa capiti quando dal 'vitro' si passa alla pelle delle fiduciose acquirenti –, oppure «test di autovalutazione a 56 giorni» – chi si sia 'autovalutato' e su che cosa, naturalmente, non è dato a sapere.
Oppure, la Talaltra azienda energetica si impegna a «rispettare l’ambiente aumentando la produzione di energia da fonti rinnovabili... che contribuiranno a ridurre del 38% le emissioni di CO2».
'Del 38%', evviva! Ma... rispetto a che? Detta così, sembrerebbe rispetto alla totalità delle emissioni di CO2 umane: in altre parole, il tanto agitato (benché assai discutibile) spauracchio del riscaldamento globale sarebbe bell’e dissolto. E poi: 'contribuiranno'... in che misura? Insomma: una frase altisonante e dall’apparenza 'scientifica', ma che, una volta letta con un po’ di occhio critico, non vuol dire assolutamente nulla; pura retorica, dove il numero – 38% – viene agitato come certificazione indiscutibile di veridicità e di indubbio, comprovato successo. Lo stesso che si vuole mostrare, passando dalla pubblicità alla sua sorella gemella, la propaganda, quando si 'danno i numeri' delle manifestazioni di piazza, dei concerti, degli ascolti televisivi. «Centrodestra in piazza contro Prodi. Berlusconi: 'Siamo due milioni'» (Roma, piazza San Giovanni, dicembre 2006).
«Centrosinistra in piazza contro Berlusconi. Veltroni: 'Siamo due milioni e mezzo'» (Roma, Circo Massimo, ottobre 2008). «Cgil in piazza contro l’articolo 18. Cofferati: 'Siamo tre milioni'» (Roma, Circo Massimo, marzo 2002). Vane le precisazioni delle questure (che indicavano, rispettivamente, pur sempre rispettabili partecipazioni di settecentomila, duecentomila, ancora settecentomila), che non si sa perché avrebbero un’insana passione per la minimizzazione. Eppure, al di là dei metodi applicati dalle forze dell’ordine, dovrebbe bastare il buon senso per ricordaci che quei milioni di persone, in piazza San Giovanni o al Circo Massimo, semplicemente non ci stanno: è più dell’intera popolazione di Roma stessa.
Anche qui, esattamente come nella pubblicità, il gioco al rialzo è dettato dalle esigenze della comunicazione: la spirale è innescata, se porti in piazza meno di 'un milione' di persone hai fallito. Ma queste cifre, sulle quali ci si scanna regolarmente il giorno dopo, non hanno nessun ancoraggio con la realtà; simboli puri, che vogliono dire: «Tanta gente».
Anzi: «Più gente di quella che sei riuscito a portare tu». Numeri fittizi, che diventano anche uno scudo difensivo contro le critiche di contenuto: se il tal politico si vanta di una popolarità del 73,8%, difficile che sia ricettivo alle critiche sui contenuti specifici della sua azione di governo.
Allo stesso modo, il conduttore del programma televisivo più vacuo e volgare mai andato in onda può ribattere imperturbabile: «Il pubblico è con noi, abbiamo il 28,7% di share ».
Ovvero, alla lettera: 1.481 famiglie delle 5.163 dotate di apparecchio rilevatore Auditel, statisticamente considerate rappresentative di tutti i sessanta milioni di italiani. Il metodo, sostanzialmente, è quello dei sondaggi, che non a caso impazzano in ogni ambito, dalla politica all’economia (dove si chiamano 'ricerche di mercato'), sempre nell’illusione di poter ridurre la complessità del molto alla semplicità del poco. Con i numeri si conquista una forma fittizia di autorevolezza, basata su un fallace para-sillogismo: poiché i numeri sono lo strumento della scienza esatta che noi tutti veneriamo, e poiché io vi parlo attraverso i numeri, allora quello che dico io è scienza esatta, e voi dovreste venerarmi. Anche la retorica si adegua ai tempi: sembra remota quanto quella di Paolo Diacono l’arte di un Martin Luther King, capace di far vibrare i cuori con quel suo I have a dream, senza nemmeno un numerino in tutto il discorso. D’altra parte, con i criteri di oggi quell’evento epocale sarebbe rubricato tra i fallimenti: ad ascoltare King davanti al Lincoln Memorial di Washington, il 28 agosto del 1963, c’erano duecentomila persone.
Esattamente il numero sparato dai girotondini di piazza San Giovanni nel 2002. Certo, dietro King c’erano venti milioni di neri d’America: ma vuoi mettere la capacità di mobilitare le masse di un Nanni Moretti?
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Le fabbriche dei dati
Tre sono le grandi fabbriche dei numeri che affollano il nostro dibattito pubblico. Non tutte ugualmente affidabili, e comunque sempre da usare con le molle – ovvero, con gli strumenti propri dell’analisi statistica e sociologica, che raramente chi parla padroneggia.
La prima è quella, onnipresente, dei sondaggi. «Sono i numeri che colpiscono di più – spiega il direttore del Censis, Giuseppe De Rita –, e per questo vengono propinati agli italiani ogni giorno. In sé il sondaggio è uno strumento valido, ma da solo non basta: come ogni dato, per avere senso deve essere interpretato, inserito in uno schema di lettura più ampio. E purtroppo è proprio questo ciò che manca totalmente alla comunicazione di massa: l’interpretazione». Molto dipende da come viene concretamente realizzato, un sondaggio. Il campione può non essere ben scelto, e quindi non essere rappresentativo dell’intera società; le domande possono essere formulate in modo tendenzioso, in modo da favorire un certo risultato. Ma questo solo i tecnici sanno valutarlo, mentre all’opinione pubblica viene presentato il dato bruto. Molto più affidabili sono invece i numeri forniti dalla seconda 'fabbrica', le istituzioni. Istat, Banca d’Italia, ministeri diffondono informazioni di indubbia solidità e affidabilità. Anche qui, però, il problema è l’uso che se ne fa. «Per esempio – spiega De Rita – i dati Istat sulla criminalità sono senz’altro corretti. Solo che vengono elaborati, correttamente e 'istituzionalmente', a partire dalle sentenze passate in giudicato: per cui quelli che escono oggi si riferiscono, dati i tempi della giustizia italiana, se va bene a crimini commessi dieci anni fa.
Ecco perché sono dati che dicono molto a noi, istituti di ricerca che sappiamo combinarli con altri in una visione d’insieme, e poco o nulla ai media, che pure li sparano a tutta pagina come se fossero novità». Terzo filone è poi quello dei dati amministrativi: tot arrestati con la tale accusa, tot iscritti alla tale scuola, e via dicendo. Anch’essi in un certo senso 'istituzionali', sono tuttavia numeri bruti; non falsi in sé, ma che necessitano tassativamente di contestualizzazione e interpretazione. «Sono i più ricercati – puntualizza ancora De Rita – perché oggettivamente più sfiziosi e 'in tempo reale', ma anche i meno affidabili. Di norma vengono raccolti da persone che non hanno alcuna cultura di ricerca statistica, e poi si prestano facilmente, decontestualizzati come sono, alla strumentalizzazione, anche da parte delle stesse istituzioni che li forniscono. Per un addetto stampa è facile, per esempio, allineare i volatili e provvisori numeri raccolti da un ministero affinché dimostrino proprio quanto sia corretto il punto di vista del ministro». L’opinione pubblica resta così disarmata, di fronte all’alluvione di numeri. L’effetto finale? «Casino, stanchezza e indifferenza», chiude lapidario De Rita.
«Avvenire» del 21 febbraio 2010

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