26 febbraio 2010

Le conseguenze di Google

Ecco la domanda: davvero si può pubblicare qualsiasi cosa sul Web? Cosa pensano gli esperti del settore
s.i.a.
Secondo la singolare interpretazione del New York Times, la condanna di Google per violazione della privacy legata alla pubblicazione di un filmato di molestie ai danni di un disabile, sarebbe il sintomo di una volontà italiana di “regolamentare Internet in maniera più determinata rispetto al resto dell’Europa”, perché questo fa comodo a Berlusconi e alle sue tv. Ma il giorno dopo la sentenza, la vera domanda è: può un provider di servizi Internet essere assimilato a un editore? Al di là del caso specifico – che sarà analizzato in maniera più approfondita quando si conosceranno le motivazioni della sentenza – l’ipotesi di una responsabilità oggettiva dei dirigenti di Google per il materiale che gli utenti hanno immesso (uploading) su you.tube pone una serie di questioni capitali, che superano la dimensione stessa di Google, e vanno al cuore di quello che è la rete. Finora Internet è stata considerata alla stregua di una frontiera sottratta alla regolamentazione. La decisione del tribunale di Milano crea un precedente che può innescare evoluzioni impreviste.
Spiega al Foglio Guido Camera, avvocato dell’associazione Vivi Down che ha ottenuto la condanna: “La portata della decisione non va esagerata; si riferisce a un caso specifico. Il punto è che Google non ha deliberatamente tenuto conto delle norme italiane sulla privacy”. Ciò non toglie che “dobbiamo trovare norme in grado di seguire l’evoluzione rapidissima di Internet. Ciò presuppone un coordinamento internazionale. Non stiamo parlando di libertà di informazione, ma del rapporto tra libertà di impresa – compresa quella di Google di organizzare un modello di business fondato sulla pubblicità e sulla massimizzazione delle visite – e diritti individuali. Le tecniche di filtraggio già esistono e, in parte, vengono applicate. E’ opportuno che i fornitori di servizi adeguino i loro comportamenti ai problemi della privacy, definita l’habeas corpus del XXI secolo”.
La questione è sia tecnica, sia giuridica. “Non c’è modo per Google di controllare tutto ciò che viene postato – ha scritto JR Raphael di Pc World – E non c’è neppure modo di verificare tutti i commenti su ogni pagina”. Su Spiked, Tim Black ha detto scherzosamente che l’Italia ha “rotto la rete”, mentre un duro editoriale dell’Independent afferma che “minacciare con la galera i dipendenti non è il modo per promuovere” standard di condotta o di decenza su Internet. Ne è convinto anche l’avvocato Guido Scorza, presidente dell’Istituto per le politiche dell’innovazione: “Il ruolo degli intermediari, come Google, non è attivo, ma neutrale rispetto all’informazione. Bisognerebbe imputare ogni condotta al soggetto che l’ha originata, non alla catena di quanti la veicolano”. Come si possono prevenire le attività illecite? “Esistono altri mezzi – replica Scorza – Se ho notizia della pubblicazione di un contenuto diffamatorio, posso chiedere al giudice di bloccarlo. Se però tale compito viene attribuito al provider, torneremo verso un mondo in cui l’autore ha necessariamente bisogno dell’editore, se vuole comunicare qualcosa”.
Di fatto, la blogosfera sembra sposare la tesi della stessa Google, che fa leva da un lato sull’impossibilità pratica di prevenire il cattivo uso di Internet, dall’altro sulla libertà intrinseca nella rete stessa. Anche chi adotta un approccio pragmatico, riconoscendo l’esistenza di problemi legati al modo in cui tale libertà è utilizzata, fatica a trovare una risposta soddisfacente, che non sconfini nella censura o, comunque, in una regolamentazione troppo invasiva. Spiega Serena Sileoni dell’Università di Firenze: “Non è esigibile una condotta di sorveglianza a carico del provider per motivi temporali (dovrebbe conoscere i contenuti in anticipo) e spaziali (lo spazio di Internet è teoricamente infinito). Sarebbe antigiuridico, in base al principio di imputabilità, addossare la responsabilità penale a chi non può controllare la condotta altrui. La responsabilità penale è personale, per cui è di nuovo antigiuridico condannare eventualmente i dirigenti di un provider per una condotta di cui non sono nemmeno a conoscenza”.
«Il Foglio» del 26 febbraio 2010

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