13 febbraio 2010

Laicità, modello giacobino addio

Il mito nato dalla Rivoluzione francese è in crisi, mentre si rivaluta la via americana: parla il sociologo Luca Diotallevi
di Paolo Viana
Come ti smonto il mito della laicità, partendo da Hobbes, passando per la Glo­riosa Rivoluzione inglese di fine Seicento, fino ad arrivare al Vati­cano II: è la sfida lanciata da Luca Diotallevi nel libro Un’alternativa alla laicità (edizioni Rubbettino, pagine 260, euro 14), con il quale il sociologo analizza la genesi dell’idea giacobina di laicità, ne rintraccia i legami con l’assoluti­smo, la contrappone alla tradizio­ne anglosassone della religious freedom e infine si interroga sulla relazione tra cattolicesimo e crisi della laicità. Per concludere che «la laicità va relativizzata», come argomenta in quest’intervista.
Chi ammette la crisi della laicità, sovente la spiega con la rinascita della religione. Quest’opposizio­ne esiste veramente?
«È un’opposizione debole, sia perchè chi osserva, empiricamen­te, il ritorno delle religioni do­vrebbe ammettere che si tratta di un fenomeno dalle dimensioni più ridotte di quelle che servireb­bero per provocare da sole la crisi della laicità, sia perché chi riduce il problema all’interdipendenza tra questi due fenomeni si dimo­stra subalterno allo schema della laicità che contrappone moder­nità e religione. A mio parere, in­vece, vi è spazio per una critica ancor più radicale della laicità e parte dall’esistenza, nella stessa modernità, di un modello di se­parazione dei poteri politici da quelli religiosi non solo diverso ­ma alternativo - a quello della lai­cità di matrice giacobino. Parlo della religious freedom anglosas­sone».
Cosa le separa?
«Un muro. Come insegnava Tho­mas Jefferson, quello che divide politica e religione nel caso della
laïcité separa pubblico e privato, mentre quello della religious free­dom corre all’interno dello spazio pubblico. Le conseguenze sono e­normi: nel primo caso di attua u­na privatizzazione della religione che può dettare norme etiche so­lo nel campo privato, mentre alla politica è riservato il compito di dominare tutto il mondo pubbli­co. Questo passaggio è particolar­mente costoso per il cristianesi­mo ».
Perché la rinascita delle religioni non dovrebbe mettere in tensio­ne il principio di libertà religiosa esattamente come avviene per quello di laicità?
«Perché la religious freedom postula la stessa dignità pub­blica per tutte le isti­tuzioni: governo, parlamento, ma an­che impresa, chiesa, famiglia... Lo Stato si occupa dell’ordine pubblico, le altre isti­tuzioni hanno il loro spazio e l’e­mergere di un’istanza non pregiu­dica la tenuta del modello. Al con­trario, nel regime 'francese' so­pravvive solo lo Stato, che fagoci­ta tutto quanto, diritto compreso, completando il processo noto co­me 'assolutismo'. Tutto ciò ha caratteristiche premoderne piut­tosto che moderne, per la pretesa della politica di controllare tutti gli aspetti della società e di ren­derla omogenea».
Ammesso che sia così, il princi­pio francese di laicità resta co­munque più familiare all’ordina­mento europeo di quello 'ameri­cano'.
«Le radici della religious freedom, celebrata dall’ordinamento statu­nitense, affondano nella rivolu­zione inglese: nasce con la Glorio­sa rivoluzione e non con i padri pellegrini. Quell’esperienza poli­tica si concluse senza separare lo spazio pubblico dalla religione, come fecero invece i francesi; del resto, non dimentichiamolo, l’hu­mus era diverso, cioè gli anglicani erano molto più vicini ai cattolici di quanto non lo fossero i rifor­mati francesi. A partire dal 1600 si svilupparono comunque due sto­rie politiche e giuridiche paralle­le: in quella francese prevalse il re, in quella inglese, poi esportata negli Usa, il Parlamento, con una diversa dignità assegnata al feno­meno religioso nella società. Sul piano giuridico, in Francia, il di­ritto viene assimilato alla legge dello Stato, mentre nei regimi di common law si riconosce l’esi­stenza di diritti che in molti casi precedono la legge. A parte il fatto che l’Inghilterra fa parte della sto­ria europea nè più nè meno della Francia, questo secondo approc­cio lo ritroviamo sia nella storia i­taliana che in quella comunitaria.
La Costituente infatti attenuerà l’assolutismo dello Stato fascista con innesti di diritto comune e attraverso il riconoscimento di u­na pluralità di ordinamenti, come si evince da tanti articoli della pri­ma parte del testo. La stessa ispi­razione è poi alla base del proces­so di integrazione europea: la rin­tracciamo nella creazione della Ceca, con cui fu sottratta una quota di sovranità statale sull’uti­lizzo delle materie, sovranità che era stata tra l’altro all’o­rigine di due guerre mondiali».
In altre parole, la laicità non è il fulcro del nostro ordina­mento e della mo­dernità, ma un cor­po estraneo?
«È il frutto della Francia moderna, tutto qui, la quale è solo una parte, e neppure la più in salute, del patrimonio culturale e sociale europeo. Il peso che si assegna nella Costituzione italiana ad elementi come la famiglia, il mercato, la stessa libertà religiosa è in contrasto con il modello assolutista mentre almeno tendenzialmente è in linea con quello poliarchico, sul quale la Dignitatis Humanae del Concilio Vaticano II si esprime chiaramente e che viene richiamato anche dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI. La laicità non può pertanto sottrarsi alla propria crisi richiamandosi alla tradizione 'monarchica' europeo-continentale, perché esiste una tradizione polarchica altrettanto europea; né contrapponendo modernità e religione, perchè esiste un filone altrettanto moderno che non postula la privatizzazione del sentimento religioso. Come evidenziarono, affrontando il tema della libertà religiosa in ambito conciliare, John Courtney Murray e Pietro Pavan».
«Avvenire» del 13 febbraio 2010

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