24 febbraio 2010

Intercettazioni: ora un limite di civiltà (ma non a chi indaga)

I veri processi non sono quelli mediatici
di Francesco D'Agostino
In quel tormentone, tipicamente italiano, che è il di­battito sulle intercettazioni telefoniche è emersa l’e­spressione «condannato mediatico» usata dal diretto­re del Tg1 Augusto Minzolini e, suppongo, inventata da lui. L’espressione è efficace e, al di là delle polemiche sulle scelte editoriali della testata ammiraglia del­l’informazione tv, dovrebbe far riflettere seriamente tutti. Purtroppo è invece divenuta occasione di enne­simi e sterili dibattiti, che hanno visto come protago­nisti quasi esclusivamente giornalisti e politici. Eppu­re la questione delle intercettazioni non è primaria­mente politica o giornalistica, bensì giuridica; è una questione di giustizia ed è su questo testo che dobbia­mo battere e ribattere, anche se so bene che questo approccio alla questione susciterà le ironie dei 'reali­sti', per i quali al di là della prospettiva politica non può esisterne alcun’altra.
Qual è il fine delle intercettazioni? Lo sappiamo: l’ac­certamento di responsabilità penali. Basta questo fine, così ragionevole e condivisibile, a giustificarle? No, per­ché di per sé il fine non giustifica i mezzi. Se così non fosse, dovremmo per coerenza giustificare la tortura co­me strumento di indagine, dato che (purtroppo e di­versamente da come pensava Beccaria) dal punto di vista inquisitorio e probatorio la tortura, tranne rari casi, 'funziona'.
Esiste un limite insuperabile, che le intercettazioni de­vono rispettare, per non divenire irrimediabilmente in­giuste: la presunzione di innocenza dell’inquisito. Su questa presunzione si fonda non solo tutto il diritto pe­nale, ma a ben vedere la democrazia stessa, in qualsia­si modo la si voglia intendere. Nessuno va ritenuto col­pevole fino a condanna defini­tiva. Ma il sistema delle inter­cettazioni, quando viene am­plificato dai mass-media, come avviene ormai sistematicamen­te e da anni in Italia, crea nell’o­pinione pubblica la figura del «condannato mediatico», atti­vando giudizi e soprattutto pre­giudizi che si cristallizzano e che accompagnano l’inquisito nei lunghi mesi (o più di frequente nei lunghissimi anni) che sono necessari per giungere alla fine delle vertenze giudiziarie. A ciò si aggiunga il fatto che risulta pressoché impossibile rimuo­vere tali pregiudizi, anche se l’innocenza dell’intercet­tato viene poi ampiamente riconosciuta dai giudici al termine del processo. Gli esiti di tutto questo sono ca­tastrofali sul piano della giustizia e dovrebbero essere ormai sotto gli occhi di tutti: l’Italia è divenuto il Paese in cui, attraverso intercettazioni pur legalmente auto­rizzate dalla magistratura, troppi cittadini sono divenuti vittime di ingiustificate umiliazioni, sofferenze, emar­ginazioni professionali, familiari e sociali, per le quali non può esistere forma di compensazione adeguata.
Esistono rimedi? Certamente, a condizione che la que­stione venga affrontata nella logica della giustizia e non in quella della politica. Non si tratta di proibire le in­tercettazioni, ma la loro diffusione mediatica; di con­sentirne cioè la conoscenza, oltre che ai magistrati cui sono affidate le indagini, solo alla difesa, almeno fino al loro uso dibattimentale. L’esigenza di segretare le in­tercettazioni dovrebbe essere calibrata esattamente sul­le stesse modalità attraverso le quali viene garantita la privacy dei dati sensibili.
Di fronte a un simile discorso molti giornalisti – ma non tutti, e Avvenire lo testimonia con la sua ormai antica scelta di sobrietà e di aderenza ai fatti nel trattare le vi­cende giudiziarie e i materiali collegati a esse – torne­ranno a ripetere che così si finirebbe per limitare la li­bertà di stampa. Il rischio non c’è; ma ammesso e non concesso che ci sia, osservo che la presunzione di in­nocenza, come diritto fondamentale, ha una priorità ri­spetto alla libertà di stampa. Lo si può dimostrare fa­cilmente. Segretare le intercettazioni non significa proi­bire che vengano diffuse notizie in merito alle attività inquirenti dei magistrati o ai nomi degli inquisiti. Né a maggior ragione significa proibire o segretare per sem­pre le trascrizioni delle telefonate. Si tratta solo di im­porre ai mass-media di non darne notizia fino al mo­mento in cui cominci la fase dibattimentale del pro­cesso, nella quale devono essere pubblicamente esibi­te tutte le prove favorevoli o contrarie all’imputato. La libertà di stampa non viene quindi né umiliata né of­fesa, ma semplicemente limitata, in nome del superio­re diritto di ogni cittadino di essere considerato inno­cente fino alla condanna definitiva. Quando, invece, ben prima che il processo cominci, anzi ben prima a vol­te che l’intercettato assuma formalmente il ruolo di im­putato, le intercettazioni (inevitabilmente pubblicate non nella loro integrità, ma con tagli più o meno mali­ziosi) attivano nella pubblica opinione una convinzio­ne di colpevolezza, destinata a divenire ben presto in­delebile, il diritto alla presunzione di innocenza viene completamente cancellato. È così che si realizza l’in­giustizia.
«Avvenire» del 23 febbraio 2010

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