03 febbraio 2010

Il diritto di frequentare una scuola «fatta in casa»

di Carlo Lottieri
La notizia fa scalpore. Nei giorni scorsi il cittadino tedesco Uwe Romeike, la moglie e i loro cinque figli hanno lasciato il Baden-Württemberg e ottenuto asilo politico in America, dato che nel loro Paese si voleva imporre ai ragazzi di andare a scuola, impedendo ai genitori di istruirli entro le mura domestiche e secondo i loro convincimenti. I Romeike si sono quindi trasferiti nel Tennessee, dove hanno ottenuto - creando non poco imbarazzo diplomatico - di restare negli Stati Uniti.
Da tempo, in tutti i cinquanta Stati americani il diritto dei genitori di formare i giovani a casa (in inglese, homeschooling) è riconosciuto. Non è così però in Germania e questo spiega la scelta di emigrare. Ma ben al di là del caso specifico l’episodio è interessante per capire le specificità del dibattito sull’istruzione in America. Da noi, infatti, parlare di libertà educativa significa parlare soprattutto del rapporto tra scuole pubbliche e private, e quindi della legittima rivendicazione delle famiglie che scelgono le seconde di non pagare due volte: gli istituti pubblici non frequentati (ma finanziati con le imposte) e quelli privati, dove mandano i ragazzi. Ma negli Usa ci si è spinti molto più in là, poiché praticare l’homeschooling significa tornare a prendersi cura in prima persona dei figli e in qualche modo riattualizzare la figura del precettore. Ovviamente, spesso non si tratta di famiglie isolate, ma di piccole comunità composte da alcuni nuclei familiari in cui i genitori stessi impartiscono corsi di inglese, storia, musica e via dicendo. Con il risultato che, dopo una giornata passata in banca, c’è chi magari si trova a insegnare matematica.
Le origini del movimento sono sorprendenti, specie se si guarda a cosa l’homeschooling è ora. All’inizio, a proporre la «scuola fatta in casa» vi erano personaggi della contro-cultura come Ivan Illich o Paul Goodman, che rigettavano l’istituzione scolastica quale modello di gerarchia. Ma quanti oggi aderiscono al movimento provengono soprattutto dall’America conservatrice, che avversa la mentalità prevalente tra gli insegnanti: troppo progressisti, laici, estranei ai valori tradizionali. D’altra parte, in questa vicenda un passaggio cruciale si ebbe con la sentenza del 1972 pronunciata dalla Corte Suprema in merito al caso «Wisconsin v. Yoder». Nella circostanza la più alta corte riconobbe che era diritto dei genitori di religione Amish di non mandare a scuola i figli una volta che essi avevano raggiunto i 14 anni d’età: e ciò per tutelarne l’identità. Finora, sul piano della formazione i risultati sono stati più che soddisfacenti. Quando i giovani si presentano all’università (poiché l’homeschooling si conclude con gli studi liceali) in genere hanno una preparazione di base assai migliore che gli altri studenti. In parte questo può essere dettato dal fatto che le loro famiglie sono tra le più colte, ma quale che sia il motivo non si è di fronte a un fallimento. E lo riprova il fatto che mentre negli anni Settanta i ragazzi educati a casa erano non più di 15mila, ormai siamo a una cifra intorno ai 2 milioni, con una crescita annuale che - nell’ultimo decennio - è stata tra il 5 e il 12%.
Ovviamente non mancano voci critiche. Un progressista come Robert Reich, che negli anni Novanta fu anche ministro del Lavoro negli Usa, ha condotto un attacco feroce a quanti si fanno carico in prima persona della formazione dei figli. Si tratterebbe, a suo vedere, di un modo per sottrarsi alla comunità, ai legami civici, alle responsabilità comuni. Ma in generale il consenso va crescendo. La stessa decisione del tribunale di Memphis che ha concesso asilo politico ai Romeike attesta quanto sia cresciuta la considerazione verso questa manifestazione della libertà di educazione. Per il giudice, i coniugi Romeike si sono battuti per il bene dei figli, rifiutando i programmi scolastici ministeriali e l’idea stessa che lo Stato decida in merito ai valori che i giovani devono condividere. Sono stati multati per molte migliaia di euro, ma questo non li ha fatti recedere. A tale proposito, che il Paese in questione sia la civile Germania, e non Cuba o la Corea del Nord, poco comporta. Perché ovunque è indispensabile avere il coraggio di saper porre un argine di fronte alle pretese del potere.
«Il Giornale» del 3 febbraio 2010

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