07 febbraio 2010

Dissenso? No: in Urss fu vera Resistenza

di Jurij Mal’cev
Quando venne pubblicata la prima opera di Solzenicyn, il romanzo breve Una giornata di Ivan Denisovic (nel 1962, col beneplacito dello stravagante Chrušcëv, il quale, impegnato a lottare per il potere nel Comitato centrale del Pcus, aveva pensato bene di farlo all’insegna della denuncia del 'culto di Stalin', stramberia per la quale venne immediatamente rampognato da Gomulka e Ulbricht), il più reputato intellettuale marxista dell’epoca, filosofo e studioso di estetica, György Lukács, lo definì un magnifico esempio di realismo socialista. A noi che eravamo in Russia, quando l’abbiamo saputo, è parso che ci fosse una sola risposta adeguata a cotanto giudizio: una sonora risata. Comunque sia, l’opera suscitò un immenso scalpore a livello mondiale. Dal nostro punto di vista, però, c’era in questo sensazionalismo qualcosa di scandaloso e, vorrei dire, di inaccettabile. Il punto è che fin dai primi giorni del potere sovietico, a cominciare da Bunin e Merezkovskij, Mel’gunov e Miljukov, Struve e Mal’sagov, e poi nel corso di tutti i successivi decenni, non sono mancati dei russi coraggiosi e onesti che sono riusciti a riparare in Occidente e hanno cercato di raccontare, con dolore e sofferenza, che cos’era in realtà il regime comunista sovietico. Ebbene, essi non soltanto non sono stati ascoltati, ma sono stati anche disprezzati come reazionari. C’è voluta la pubblicazione sulla stampa sovietica ufficiale di questo romanzo breve, di non grandi dimensioni, c’è voluto il nulla osta del regime stesso col timbro della censura sovietica, perché l’Occidente a un tratto si decidesse a crederci: sì, in Urss c’erano state le repressioni, sì, c’erano stati i lager. E proprio questo era l’intento di Solzenicyn: prima di tutto, arrivare a pubblicare almeno qualcosa sulla stampa ufficiale.
A parte due o tre racconti apparsi allora sull’onda dell’Ivan Denisovic, le successive opere più significative di Solzenicyn, i romanzi Il primo cerchio e Padiglione cancro, furono subito proibite, come poi tutte le altre, e cominciarono a circolare clandestinamente nel samizdat, in quel circuito di lettori-editori noto in Italia come 'autoeditoria clandestina'. Senza tema di esagerare, si può dire che a Mosca e a Leningrado non c’era un intellettuale che non avesse letto questi romanzi. Le loro copie dattiloscritte passate di mano in mano andavano letteralmente a ruba, gruppi di amici si ritrovavano e, seduti attorno a un tavolo, leggevano, passandosi a turno i sottili fogli dell’unica copia reperita con tanta difficoltà e rischio, per qualche ora di fila se non per l’intera notte. Nessun altro scrittore contemporaneo di Solzenicyn, credo, ha avuto una simile cerchia di devoti lettori.
Anche i due romanzi clandestini di Solzenicyn furono accolti favorevolmente in Occidente, in quanto vennero interpretati come 'critica allo stalinismo' e denuncia dei campi di prigionia staliniani, nonostante in essi il quadro s’allargasse ormai a tutta la società sovietica, coi suoi mostruosi stravolgimenti delle basi stesse della convivenza umana. Una società, questa, che poteva unicamente nascere come risultato del tentativo violento, totalizzante e totalitario, di realizzare il progetto marxista-comunista di rifacimento del mondo, con la distruzione della vecchia società e la creazione di una nuova società e di un uomo nuovo, sulla base di schemi primitivi indotti da idee assolutamente erronee circa la natura dell’uomo, la società umana e la sua storia. Per quanto riguarda poi i lager staliniani, c’è chi vuole ostinatamente costringerci a dimenticare che i campi di concentramento di Lenin, i lager della morte di Cholmogory, Pertaminsk, Archangel’sk, Kozuchino, delle isole Soloveckie e tanti altri non erano migliori dei lager staliniani, e alcuni erano perfino peggiori (anche se sembra impossibile), più terrificanti: da alcuni di quelli non un solo prigioniero è tornato vivo. Quello che viene chiamato 'stalinismo' (o maoismo, il termine 'polpottismo' si comincia qua e là a sentire) è stato soltanto la tappa culminante, la più compiutamente perfetta nella quale è sfociata la realizzazione del progetto comunista.
Nei media occidentali, insieme all’etichetta 'critico dello stalinismo', riduttiva e volutamente fuorviante, ha sempre figurato quella altrettanto falsa di 'scrittore dissidente'. Definire Solzenicyn uno 'scrittore dissidente' non è meno assurdo che definire in questo modo, in rapporto al nazismo, Lion Feuchtwanger o Thomas Mann.
Dissidente non è una parola russa. Questo termine è stato inventato in Occidente e si è affermato sulla stampa occidentale. Quanto a noi, cioè i 'dissidenti' stessi, è fin dall’inizio sembrato inaccettabile per due motivi.
In primo luogo, il termine 'dissidente' non sottintendeva affatto una totale ripulsa, un rifiuto del regime comunista in quanto tale, ma presupponeva, accanto a parziali punti di disaccordo, anche una sfera più o meno estesa di consenso. Come se si fosse potuto accettare qualcosa di quel regime, la cui essenza era la menzogna di una propaganda totalizzante e pervasiva e l’ininterrotta martellante azione sui cervelli per riplasmarli, la negazione della libertà e della dignità della persona, l’uniformità della caserma e una dottrina di rara ottusità e grettezza, rivestite però di tracotante sicumera, definita 'scienza marxista', obbligatoria per tutti. Un regime, notiamo, che non aveva nulla da invidiare a quello nazista in fatto di ferocia e disumanità, e anzi spesso arrivava a superarlo. Proviamo ad applicare agli oppositori del nazismo, in rapporto al regime cui si opposero, il termine 'dissenso', invece di 'resistenza'. Non suonerebbe forse offensivo? E perché dovrebbe essere altrimenti per i critici e oppositori del regime comunista in Urss? Fu proprio in forza di tali considerazioni che Bukovskij e Maksimov chiamarono 'Internazionale della Resistenza' l’associazione da essi fondata all’estero in funzione antitotalitaria.
In secondo luogo, non potevamo accettarlo, perché col termine 'dissidenti' si presumeva di individuare un insignificante gruppetto di contestatori in mezzo al gran mare del consenso generalizzato. Nel farlo ci si dimenticava però di rilevare l’incontrovertibile circostanza che solo un regime consapevole di essere odiato dal popolo e che si sentiva costantemente minacciato e insicuro poteva ricorrere, dal primo all’ultimo giorno della propria esistenza, a un terrore incessante e spietato come principale strumento della gestione del potere.
La parola russa da noi utilizzata invece dell’occidentale ' dissidente' era inakomysljašcij, che è difficile rendere con esattezza e concisione, significando alla lettera ' colui che la pensa diversamente'.
Ci bastava una rapida occhiata a uno sconosciuto per capire senza tema di errore chi fosse, se ' dei nostri' o ' non dei nostri', vale a dire un sovok ( abbreviazione grottesca dello stereotipo giornalistico­propagandistico di sovetskij celovek ), un esemplare cioè del ripugnante homo sovieticus, quel nuovo tipo antropologico immortalato dalle penne di Bulgakov, Zošcenko, Solzenicyn e in aneddoti politici indimenticabili, talvolta semplicemente geniali, trasmessi di bocca in bocca. Tra noi e loro c’era un abisso. Chi non è vissuto in quegli anni in questo Paese, non potrà mai capire per davvero il sentimento che provavamo immersi in quell’atmosfera: non era neppure odio per il regime, era qualcosa di molto più coinvolgente, era ribrezzo.
In Occidente Arcipelago Gulag fece grande scalpore e aprì non poche menti, specie in Germania e in Francia. In quest’ultimo Paese si produsse addirittura un terremoto culturale: dal dibattito che se ne sviluppò si formò un gruppo di cosiddetti 'nuovi filosofi' che restano indubbiamente per molti aspetti debitori di Solženicyn, il quale in particolare aveva restituito all’uso filosofico la categoria del 'Male', estranea al marxismo. In Italia niente di tutto questo, tanto che si potrebbe pensare che il libro venne letto assai poco. I maîtres à penser locali liquidarono l’opera come un centone di scarso o nullo valore letterario, discettando di un 'primo' e un 'secondo' Solzenicyn: lo scrittore autentico di prima avrebbe tradito il suo talento letterario per la polemica politica.
A differenza di Solzenicyn, interessato, anzitutto e fondamentalmente, alla Russia, Sacharov con la sua mente scientifica, abituata a ragionare per sistemi, considerava la Russia in un contesto globale e, sotto questo aspetto, è molto vicino all’oggi, quando ormai dobbiamo considerare il significato complessivo di questioni come il ruolo svolto dal regime comunista sovietico nel processo di imbarbarimento del mondo e di perdita della prospettiva di un ordine sociale migliore. Proprio da qui deriva anche la principale disparità di vedute tra Sacharov e Solzenicyn. Lo scienziato considera donchisciotteschi il patriottismo romantico e la fede patriarcale dello scrittore. Per Sacharov non c’è un solo problema importante e cruciale della Russia che possa essere risolto su scala esclusivamente nazionale. Proprio la convergenza e l’avvicinamento all’Occidente, riteneva Sacharov, avrebbero portato a dei progressi democratici in Urss, resi necessari dalla pressione economica e politica proveniente dall’esterno. Ma Sacharov non è vissuto abbastanza per vedere quali siano stati gli ulteriori sviluppi degli avvenimenti e come anche il suo ottimismo umanistico e illuminista sia infine risultato a sua volta un’utopia.
La seconda divergenza d’opinione tra i due è determinata dal fatto che Solzenicyn, a parere di Sacharov, sopravvaluta il ruolo del fattore ideologico nel regime sovietico.
Secondo Sacharov, l’ideologia comunista è solo una facciata di comodo, uno strumento funzionale al mantenimento del potere da parte della casta dominante e alla conservazione dei caratteri distintivi del regime.
Il tempo ha dimostrato che su questo punto, anche se può apparire strano, avevano ragione entrambi. Solzenicyn aveva ragione nel dire che i dogmi marxisti soffocavano il Paese ed erano di ostacolo al suo sviluppo economico, tant’è che, non appena questi dogmi sono stati abbandonati, la vita del Paese si è da questo punto di vista radicalmente trasformata (come oggi in Cina). Ma anche Sacharov, come è risultato evidente, era nel giusto quando sosteneva che la morta ideologia marxista, nella quale più nessuno credeva, era solo uno strumento di comodo del potere: infatti, quando per mantenere tale potere si è reso necessario abbandonare lo strumento ormai diventato inutile, i suoi detentori non hanno esitato a buttare il marxismo nella spazzatura; così la nomenklatura comunista si è riciclata con successo, sostituendo la tessera di partito col libretto degli assegni.
«Avvenire» del 7 febbraio 2010

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