18 febbraio 2010

Che cosa resta del «mito dell’India»

Dopo i viaggi degli anni ’60 e ’70, molti giovani europei cercano ancora la spiritualità in Oriente Ma con quali rischi?
di Stefano Vecchia
Una delle conseguenze dell’attentato che sabato scorso ha devastato un locale pubblico nella città indiana di Pune facendo 9 morti e una sessantina di feriti è stata la scomparsa di una donna italiana, appassionata dell’India. Nadia Macerini, trentasettenne originaria di Arezzo, era – più che una visitatrice occasionale di questo grande Paese – una sua cittadina ideale, conquistata anni fa dalla filosofia di Osho Rajneesh e per questo frequentatrice del suo ashram, che si trova nei pressi del luogo dell’attentato.
La tragica fine della nostra connazionale rilancia domande sulle ragioni di un persistente interesse religioso e culturale per un Oriente lontano e «diverso», ma che viaggia tra contraddizioni e difficoltà verso un futuro che ha anche molti tratti «globali».
Occorre partire da un dato: come nel passato di centinaia d’anni, il «mito dell’India» si nutre oggi tanto delle caratteristiche di questa terra antica quanto delle necessità di chi l’avvicina. E con un’avvertenza: oggi, forse, riuscire a vederne la realtà con le sue contraddizioni e i suoi limiti sarebbe restituire al Paese asiatico il diritto ad essere quello che è e non quello che vorremmo fosse.
Hermann Hesse diceva che l’India come noi la sogniamo è una dimensione del cuore e non un luogo geografico... Un messaggio perso, per molti – pure nel cammino di ricerca sincera –­nella «necessità» dell’India; di un rapporto che l’indologa Marilia Albanese definisce «proiezioni dell’Occidente sull’India» che continua. «Tuttavia – prosegue la professoressa Albanese – se un tempo era soprattutto la spiritualità ad essere ricercata nella cultura indiana, oggi ad attrarre sono percorsi nei quali l’attenzione all’armonia psicofisica e alla padronanza della mente sembrano giocare un ruolo preponderante, vedi lo yoga e le varie forme di meditazione indù e buddhiste». Davanti all’indubbia sincerità di molti che si avvicinano alla grande tradizione indiana, direttamente attraverso viaggi e soggiorni più o meno prolungati, oppure indirettamente frequentando centri di studio, associazioni culturali o iniziative di ispirazione religiosa in Italia, il rischio è di una non comprensione e quindi di un’adesione a certi fenomeni solo per la loro diversità. «Purtroppo un’informazione parziale quando non distorta estrapola spesso tali discipline dal più profondo e articolato complesso in cui sono inserite, trasformandole in fenomeni da baraccone o in prodotti di esotico consumo. La riscoperta dell’ayurveda, la medicina tradizionale indiana, ad esempio, se da un lato risponde all’esigenza di trovare alternative che sembrano meno invasive e più naturali, dall’altro si sta rivelando un notevole business ». Così, prosegue Marilia Albanese, che è anche presidente dell’Associazione nazionale delle scuole di yoga, «in qualche modo si continua a pretendere che l’India sia come la vogliamo – spirituale, esoterica, avventurosa, risanante –, in grado di realizzare le nostre aspettative e tutto quanto non trova posto in Occidente perché non c’è mai stato o non c’è più». È indubbio che nell’attrazione esercitata dal 'pianeta India' su molte generazioni di italiani, l’esperienza religiosa – quella in particolare di alcune correnti devozionali dell’induismo – è al centro di molti viaggi, di tante esperienze che hanno coinvolto a partire dagli anni Sessanta ogni settore della nostra società. In India tutti sembravano e sembrano trovare una specie di «supermercato» della fede e della felicità, ma è proprio così? Con quali rischi?
Così risponde padre Piero Gheddo, missionario-scrittore­ giornalista, a sua volta attento osservatore del Paese asiatico: «L’India ha avuto fino a 20 o 30 anni fa un grande fascino per i giovani e in genere per gli italiani. Quando nel 1953 venni ordinato sacerdote e destinato all’India mi pareva, come si dice, di toccare il cielo col dito. Il fascino veniva dal mistero di questo Paese­continente e da tutta una letteratura che aveva esaltato l’India come luogo di civiltà esotica, di spiritualità e religioni stravaganti e profonde, di avventure. Come dimenticare Kipling e Salgari, la dea Kalì e la Trimurti, lo yoga, le foreste con i cobra e le tigri? Un libro di Pasolini che ho divorato a quei tempi era L’odore dell’India (1960), poi nel primo viaggio laggiù (1964) ho toccato con mano che la realtà era ben diversa. Ma il fascino dell’India ha resistito fino agli ultimi tempi, rinverdito dai molti giovani che andavano laggiù a cercare una dimensione spirituale della vita diversa da quella cristiana, le fonti di quella nonviolenza che Gandhi stesso diceva di trovarsi nel Vangelo». Un fascino molto diminuito negli ultimi tempi, per l’incomprensibile chiusura del Paese portata dall’hinduttva ( induità ) – rivisitazione delle origini in chiave nazionalista e xenofoba cui non sono estranee strumentalizzazioni politiche – o, forse, il fascino dell’India, che emerge come potenza economica mondiale, senza perdere (per il momento) quell’immagine di profonda umanità che seduce l’Occidente, si sta solo rinnovando e diversificando. Una domanda viene spontanea: ha ancora un senso cercare in India una fede o un senso alla vita che a volte da noi sembrano smarriti? «Non ha mai avuto senso – risponde categorico padre Gheddo –. Chi andava o va in India per questo motivo, e magari finisce vittima della droga, dell’anoressia o di esperienze in cenobi ed eremi sui monti, evidentemente non conosce, non ha mai sperimentato il corrispondente della tradizione cristiana. Bisogna però dire che fra tutti i Paesi non cristiani, l’India e la sua tradizione religiosa sono meno lontane da Cristo di qualsiasi altra religione dell’uomo.
Il Vangelo e il modello di Gesù hanno avuto, dalla seconda metà dell’Ottocento in poi, un enorme influsso sui riformatori dell’induismo che hanno segnato profondamente il cammino dell’India moderna, come Tagore, Vinoba Bhave, Vivekananda.
L’universo indù sembrava a Vivekananda esageratamente contemplativo, troppo chiuso alle necessità della persona umana e nel 1897 ha fondato la Ramakrishna Mission, introducendo nell’induismo moderno lo spirito missionario e le opere caritative sull’esempio delle missioni cristiane.
«Abbandonate i vostri misticismi che vi indeboliscono – scriveva a monaci indù –, è l’amore l’anima del mondo. Se volete servire Dio, servite l’uomo».
«Avvenire» del 18 febbraio 2010

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