11 febbraio 2010

Aldo Grasso e l’ultima stagione della serie sui naufraghi

Perché “Lost”, intrattenendo, ha portato in tv le domande fondamentali
di Piero Vietti
“E se ti dicessi che posso rispondere alla domanda più importante del mondo?”. “Quale domanda?”. “Perché siete su quest’isola”. Il motivo del successo di “Lost” è forse tutto in questo dialogo tra due personaggi che andrà in onda quest’anno. La serie tv che ha rivoluzionato la televisione è arrivata ieri sera in Italia con la prima puntata della sesta e ultima stagione trasmessa da Fox. Prima di ieri però migliaia di persone l’avevano già vista sul proprio computer sottotitolata in italiano: una sola settimana di distanza dalla messa in onda in America (tempi da record per il doppiaggio) era troppo per i fan che da quasi un anno aspettano la soluzione ai quesiti lasciati aperti nelle cinque stagioni precedenti dagli autori Damon Lindelof e Carlton Cuse.
Nemmeno le serie tv con più ascolti di “Lost” hanno creato una tale dipendenza nel pubblico. Il motivo, paradossalmente, è la sua complessità: “Lost ha osato l’inosabile – dice al Foglio il critico televisivo del Corriere della Sera, Aldo Grasso – Ha complicato fino al limite della comprensibilità la trama, facendo una cosa che nemmeno il cinema e la letteratura osano più fare”. In estrema sintesi, “Lost” narra le vicende di un gruppo di naufraghi finiti su di un’isola in mezzo all’oceano dopo un incidente aereo. In attesa dei soccorsi – che non arrivano – queste persone scoprono che l’isola ha una vita, è abitata da altre persone (“gli altri”) e si sposta nel tempo. Intrecci amorosi, omicidi, cospirazioni e colpi di scena impossibili da riassumere hanno accompagnato gli spettatori per cinque anni. Ora bisogna capire come gli autori usciranno dal labirinto che hanno creato (neppure gli attori della serie sanno ancora come andrà a finire).
Non siamo di fronte solo a una fiction di avventura, avverte Grasso: “Punto centrale è la dialettica tra fede e ragione (incarnate dai due protagonisti, John Locke e Jack Shephard, ndr), tanto che ‘Lost’ mi ricorda alcune monumentali opere medievali basate su dispute del genere. La grandezza degli autori è stata quella di avere il coraggio di andare fino in fondo”. Fondendo elementi tipici della letteratura e delle serie tv: “‘Lost’ è riuscito a unire dei topoi classici con la più assoluta modernità narrativa: il naufragio, simbolo della rinascita, di una seconda possibilità, è unito ai meccanismi della serialità televisiva, come il flashback o il flashforward”. Come i grandi romanzi, “Lost” è scritto a strati, quasi per analogie dantesche: tutto, o quasi, è anche segno di qualcosa d’altro. L’isola, ad esempio, è sia il luogo in cui i passeggeri del volo Oceanic 815 si schiantano, sia metafora esistenziale. Poco importa se lo spettatore non coglie subito il significato dell’analogia, “Lost” funziona a tutti i livelli. “A questo sono stati aggiunti elementi di mistero che costringono i protagonisti a capire se la pura e semplice razionalità può salvarci o se non ci sia già un destino scritto cui rassegnarsi”.
Negli anni si sono moltiplicati su Internet siti che lo hanno sviscerato stagione dopo stagione (su Facebook il fan club ha quasi due milioni di seguaci, in Italia è nato il gruppo di appassionati che segue la sesta stagione, c'è chi ha creato pure la Lostpedia, l’enciclopedia con i dettagli di ogni puntata), e ultimamente ha persino preso forza un’interpretazione cristologica delle vicende: il destino che chiama (“Destiny calls” è uno degli slogan usati negli spot della serie), lo scontro con il male e il personaggio di Jacob, punto di riferimento degli abitanti dell’isola che viene tradito e ucciso da uno dei suoi, hanno fatto pensare a una allegoria della storia della Salvezza. Prima della messa in onda dell’ultima stagione i produttori hanno fatto circolare sul Web una foto che ritraeva i personaggi che interpretano “L’ultima cena” di Leonardo. Se tutto ciò sia solo marketing si scoprirà alla fine, ma certo “l’aspetto dell’interazione su Internet – osserva Grasso – è stata una cosa nuova in assoluto, e non dubito che alcune interpretazioni finite in Rete possano avere influenzato gli autori nello scrivere le puntate”.
Il vero protagonista di “Lost” per Grasso è “il piacere dell’interpretazione: un seguito del genere fino a ieri ce lo avevano solo le serie tv dedicate ai teenager. ‘Lost’ è stata la prima a sfondare il muro dell’età e a fare letteralmente impazzire anche i più vecchi”. In Italia una cosa così sarebbe pensabile? “Culturalmente non siamo in grado. Non sappiamo fare progetti a lungo termine e l’unica forma che conosciamo è quella della canonizzazione, che si racconti la vita di sant’Agostino o quella di Basaglia”. La vera tristezza – osserva ancora il critico – “è vedere come sia usata male oggi la televisione”. Forse “il segreto del successo di ‘Lost’ sta nel fatto che, a differenza di quasi tutte le cose che si vedono in tv, pone e fa porre delle domande, invece di dare risposte precostituite”. Domande non qualsiasi. “Le domande”, sottolinea Grasso. Verità, significato della vita, fede, ragione, mistero, redenzione, libero arbitrio: è dunque possibile parlare di queste cose in tv senza relegarle a una predica domenicale in chiesa. E avere successo. “Chi vede la prima puntata di Lost difficilmente non guarda la seconda”.
«Il Foglio» dell'11 febbraio 2010

Nessun commento:

Posta un commento