05 gennaio 2010

La politica come una religione: ecco perché la Cina teme i dissidenti

Liu Xiaobo perseguitato da Pechino
di Ian Buruma
Il 2009 è stato un anno fortunato per la Cina. I Giochi olimpici sono stati un enorme successo, malgrado qualche piccolo intoppo. L'economia cinese va avanti a tutto vapore nel bel mezzo di una recessione mondiale. Il presidente Obama ha visitato il Paese, più in veste di supplicante a una corte imperiale che di capo della maggiore superpotenza globale. Persino il vertice di Copenaghen sul clima si è concluso secondo gli auspici cinesi: è difatti fallito il tentativo di costringere la Cina, o qualsiasi altra nazione industrializzata, a tagliare in modo significativo le emissioni di Co2, e tutte le responsabilità sono state scaricate sugli Stati Uniti. Il governo cinese, guidato dal Partito comunista, ha tutti i motivi per sentirsi baldanzoso e sicuro di sé. Ci si chiede pertanto come mai un mite ex professore di letteratura, di nome Liu Xiaobo, sia stato condannato a undici anni di carcere solo per aver auspicato la libertà di espressione e la fine del partito unico. Liu ha contribuito, nel 2008, alla stesura di una petizione - la Carta 08, firmata da migliaia di cittadini cinesi - in cui si invocavano tali libertà. Liu non è un ribelle che ha scelto la strada della violenza. Le sue posizioni, diffuse tramite gli articoli pubblicati su Internet, sono del tutto pacifiche. Eppure è stato incarcerato per «incitamento alla sovversione contro lo stato». L'idea che Liu sia in grado di sovvertire l'immenso potere del Partito comunista in Cina è chiaramente assurda, ma il governo cinese è convinto che occorra dare un esempio, per impedire ad altri di manifestare simili convinzioni. Perché semplici opinioni, o addirittura petizioni pacifiche, appaiono talmente pericolose a un regime che, per altri versi, offre tanti segni esteriori di forza e sicurezza? Forse perché non si sente, al suo interno, tanto sicuro come vorrebbe dare a intendere. È una questione di legittimità. Senza legittimità, nessun governo può dimostrarsi fiducioso nell'esercizio del potere. (..) La Cina è cambiata moltissimo nell' ultimo secolo, ma è rimasta la stessa sotto un punto di vista: è tuttora governata da un concetto religioso della politica. La legittimità, in Cina, non si fonda sul dare e avere, sui compromessi indispensabili e sulle trattative e gli accordi che formano la base di un concetto economico della politica. La concezione religiosa della politica, invece, scaturisce da una fede condivisa, imposta dall' alto, in seno a un' ortodossia ideologica. Nella Cina imperiale vigeva l'ortodossia del Confucianesimo. L'ideale dello stato confuciano poggia sull' «armonia». Quando tutti i cittadini si adeguano a un dato complesso di credenze, che comprendono i codici morali del comportamento, ecco che tutti i conflitti svaniscono. In questo sistema ideale, i soggetti obbediscono ai loro capi, proprio come i figli obbediscono ai padri. Il Confucianesimo è stato rimpiazzato da svariate versioni cinesi del comunismo, e poco dopo la sanguinosa repressione di Tienanmen una nuova ortodossia si è sostituita al marxismo cinese, il nazionalismo. Solo il partito unico può garantire l' ascesa incontrastata della Cina e metter fine a secoli di umiliazione nazionale. Il destino della Cina come grande potenza si incarna nel partito comunista. Mettere in dubbio tali convincimenti non solo è sbagliato, ma antipatriottico e addirittura «anti-cinese». Da questa prospettiva, le opinioni critiche di Liu Xiaobo appaiono davvero sovversive, in quanto sollevano dubbi sull'ortodossia ufficiale e pertanto sulla legittimità dello Stato. Molti si sono chiesti come mai il regime cinese abbia rifiutato di scendere a patti con gli studenti nel 1989, o di trovare qualche compromesso con i suoi oppositori di oggi. Questo significa sottovalutare la natura del concetto religioso della politica. Coloro che governano in virtù di una fede comune non possono permettersi di negoziare, perché ciò andrebbe a scardinare la credenza stessa. Negoziati, compromessi, accordi sono tutti cardini della politica economica, dove ogni ideale ha il suo prezzo. Ciò non vuol dire che il concetto economico della politica resti del tutto estraneo ai cinesi, o che la nozione religiosa della politica sia sconosciuta nell' Occidente democratico. Tuttavia resta marcata ancora oggi in Cina l'insistenza sull'ortodossia, tanto da costituire l'ultimo baluardo contro l'opposizione. Le cose cambieranno. Altre società confuciane, come la Corea del Sud, Taiwan e il Giappone, si sono trasformate in fiorenti democrazie liberali e non c' è motivo di credere che tale transizione sia impensabile in Cina. Il cambiamento, però, non avverrà sotto la spinta di pressioni esterne. Molti non cinesi, ed io tra questi, hanno firmato una lettera di protesta contro la condanna inflitta a Liu Xiaobo. È improbabile tuttavia che faccia breccia in coloro che credono fermamente nell' ortodossia vigente, ancorata al nazionalismo cinese. Finché la Cina non si sottrarrà alla nozione religiosa della politica, è difficile che gli ideali di Liu trovino il terreno propizio per attecchire. Non è una previsione ottimistica per la Cina, questa, né per il resto del mondo.
Traduzione di Rita Baldassarre
«Corriere della Sera» del 2 gennaio 2010

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