26 gennaio 2010

Antichi cristiani, quell’accusa di «trafugare i morti»

di Ilaria Ramelli
Nel prosieguo del racconto di Caritone che ho confrontato la settimana scorsa con quello evangelico della resurrezione, si parla dell’incredulità di fronte all’idea della tomba vuota: « Sembrava incredibile (apiston) che non vi fosse neppure il cadavere » (III 3,3) e: « Molti entrarono a causa dell’incredulità [apistia] » . Identica incredulità nei discepoli all’annuncio della tomba vuota da parte delle donne si trova anche nei Vangeli: Lc 24,11 dice che i discepoli « non credevano » alle donne (épistoun); Mc 16,11 dice che « non credettero » (épistésan; cfr. 16,13) e parla della « loro incredulità » (apistia). E Gv 20,8 dice che soltanto il discepolo amato « credette » (episteusen). I presenti spiegano il fatto della tomba vuota con un trafugamento di cadavere e si domandano: « La morta dov’è [poû]? » (III 3,4): in Gv 20,2 la Maddalena dice: « Hanno rubato il Signore e non sappiamo dove [poû] l’abbiano posto ».
In questa generale incredulità, c’è qualcuno che crede: nel Vangelo è Giovanni, il discepolo che Gesù amava (Gv 20,8), oltre alla Maddalena che vede per prima il Risorto (Gv 20,16); nel romanzo è Cherea, lo sposo, che, «volto lo sguardo al cielo, le mani tese» (III 3,5), proclama la divinizzazione di Calliroe («Non sapevo di avere una dea [thea] come sposa»).
Un’ulteriore somiglianza è tra l’incontro della Maddalena con il Risorto in Giovanni, e il ricongiungimento finale dei due sposi, Cherea e Calliroe, allorché quest’ultima, afflitta e velata a lutto poiché crede Cherea morto, lo riconosce per mezzo della voce ed esclama il suo nome, mentre Cherea grida quello della sposa (VIII 1,8: «Calliroe, riconosciutane la voce, si scoprì ed entrambi gridarono insieme: 'Cherea!', 'Calliroe!' » ). In Gv 20,14-17 la Maddalena, anch’ella come Calliroe afflitta e piangente (klaiousa, v. 11; tí klaieis, vv. 13; 15), perché crede morto il suo amato maestro, riconosce poi Gesù risorto non dall’aspetto, bensì quando egli la chiama per nome (20,16: «Gesù le disse: 'Maria!'. Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: 'Rabbuni!'»).
A partire da Petronio e Caritone, e anche da Senofonte di Efeso – anch’egli attivo in una zona in cui il cristianesimo si radicò presto –, contemporaneamente al sorgere del cristianesimo, nei romanzi antichi sarà poi diffuso il topos della morte apparente e della « risurrezione » .
Impressiona il parallelo tra Mt 28,13 («I suoi discepoli, venuti di notte, lo rubarono [eklepsan auton]») e la struttura parimenti trimembre di Caritone III 2,7 («Dei profanatori di tombe [tymbòrykhoi], scavata la tomba, la rubarono [eklepsan autèn]»). La corrispondenza stilistica, lessicale e sintattica in espressioni inusuali suggerisce una ripresa testuale. Il termine tymbòrykhoi è attestato per 16 volte nella Calliroe, come su diversi epitafi di Afrodisia, mentre non compare in alcun altro romanzo greco. Ciò parrebbe deporre a favore della attualità, al tempo di Caritone, di un’accusa come quella che Mt 28,2 testimonia in vigore contro i cristiani, mentre, quando furono scritti gli altri romanzi, probabilmente una simile accusa non era più attuale. Ho già ricordato che la condanna a morte di Terone per il reato di tymbòrykhia sembra riflettere l’anticristiano Editto di Nazareth. Per Caritone il racconto della risurrezione sarebbe, come per Petronio, una favola, e i cristiani dei creduloni, gente che ha creduto che Gesù fosse risorto perché lo desiderava ardentemente: Caritone per due volte, in termini pressoché identici, rileva che gli uomini, quello che vogliono, finiscono anche per crederlo.
«Avvenire» del 26 gennaio 2010

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