13 dicembre 2009

Videogiochi: c’è PacMan in salotto

di Ilario Lombardo
In principio fu un puntino bianco che rimbalzava da una parete all’altra dello schermo nero; un ping-pong ipnotico che ampliava le funzioni del televisore di famiglia. Siamo all’alba degli anni Settanta, in America, e così ha inizio la storia del videogioco. Una primitiva console con due controller che comandavano il gioco, noto con il fantascientifico nome di «Magnivox Odissey». Ma il videogioco non si fermò più e progredì di generazione in generazione diventando, a quarant’anni ancora da compiere, un gigante nel mercato mondiale dell’intrattenimento tanto che nel dicembre 2007 batteva per la prima volta l’industria musicale, dopo aver già fatto piazza pulita del cinema qualche anno prima. Game Over.
Tutto cambia, e il videogame non è più visto come il fratellino pestifero e incolto che ruba l’attenzione dei bambini. Il videogioco è diventato maturo, non più roba da adolescenti incalliti che relegavano lo studio nel tempo libero tra un PacMan, Prince of Persia e Super Mario Bros. Così il mercato dei videogiochi prospera, in piena crisi economica mondiale. «L’ampliamento del mercato non è dovuto al fatto che i consumatori comprano più prodotti – è il teorema semplice di Andrea Persegati, general manager della Nintendo Italia e presidente dell’Aesvi, Associazione editori software video ludico italiana , che raggruppa i maggiori produttori di hardware e software di gioco – ma sono più consumatori che comprano videogiochi».
Un allargamento che riguarda prima di tutto l’età media dei videogiocatori, 28 anni in Italia, e il sesso, non solo ragazzi e uomini ma ora anche donne, in grande aumento tra gli utenti (più del 30%). «I produttori dei videogiochi hanno cominciato a diversificare l’offerta, a pensare a un pubblico più adulto». Giochi pensati specificatamente per le donne, come quelli di cucina, abbigliamento, giardinaggio. O ancora le sperimentazioni su passatempi e rompicapo rivolti ad anziani, per tenersi allenati e lucidi.
Offerta che condiziona la domanda e traccia la strada del nuovo mondo virtuale. Basta aprire un qualsiasi giornale e si vedrà come non passi giorno senza almeno un articolo su un inedito videogame, con scenari e personaggi mai visti prima. Prima era un fiorire di «sparatutto» e «picchiaduro», termini da caserma che indicano generi d’azione senza troppo impegno, o di giochi di calcio – ancora oggi i più gettonati – e automobilistici. «Adesso è il concetto di game che è mutato: non solo intrattenimento. Giochi d’intelligenza, di strategia», spiega Persegati. La rivoluzione dei nostri tempi si chiama Wii, la console protagonista (con Playstation3 e Xbox 360) della settima generazione dei videogiochi, quella che si fa risalire al 2005 circa.
Definizione grafica elevata e un sistema di controllo che dà l’addio ai vecchi joystick con fili, coinvolgendo l’intero corpo dell’utente. Con il videogioco ora si fa sport. Oppure si può suonare uno strumento. È di questi giorni la notizia che sarà presto nei negozi Dj Hero , che simula un piatto da giradischi. Play : gioca. Play: suona. È l’equazione tutta inglese che ha dato vita a titoli dai numeri incredibili: Guitar Hero, Rock Band, Singstar , dove il giocatore suona con il proprio avatar che ha la faccia di Kurt Cobain, Carlos Santana o dei Beatles. Il videogame nasce spesso come nano che vive sulle spalle di altri giganti; il cinema prima di tutto. «I videogiochi sono onnivori, assorbono le caratteristiche delle altre arti, della storia, delle scienze», spiega Stefano Paolillo, psicologo cognitivo e presidente dell’ Associazione di studi sull’audiovisivo.
Ma ormai è anche il videogame a influenzare il cinema: molti film sono tratti da videogiochi (basta ricordare Tomb Raider o Resident Evil ), che a loro volta influenzano l’estetica cinematografica con scenari pieni di effetti speciali ( Matrix ).
Naturalmente l’industria se n’è accorta, così si realizzano strategie di marketing che al film fanno seguire il videogioco ( Avatar, l’iperfantascientifico film di James Cameron ne è l’esempio più eclatante, ma anche Star Wars e perfino un classico come Il padrino ). «Il videogame è un bene più durevole del film – continua Paolillo – e il suo costo viene ammortizzato con un uso maggiore del prodotto». Videogiochi come film: «Con un elemento in più, non indifferente: l’interattività», chiosa Persegati. Videogiochi nelle gallerie: è la game art , artisti che creano installazioni manipolando famosi giochi di massa.
Videogiochi usati come simulatori di volo. E videogiochi nelle scuole. Qui il punto si fa critico, perché apre al dibattito che per anni ha liquidato i videogiochi come diseducativi. A New York c’è una struttura scolastica, la prima al mondo, che ha basato l’intero programma didattico sui videogiochi, come mezzi alternativi di apprendimento. Negli Stati Uniti fioccano ricerche che affermano: i videogiochi stimolano il cervello, «aiutano a imparare». La matematica, la geometria, la storia? Un gioco da ragazzi per chi in un quadro di Sim city mette in atto una serie di meccanismi di problem solving ...
Almeno così la pensa chi consiglia la sperimentazione dei games come strumenti pedagogici. È il cosiddetto edutainment: imparare giocando, ennesima frontiera verso cui sono lanciate le aziende. Che apre a un universo ludico senza confini. Un esempio: l’attualità. Nascono software che si nutrono di cronaca; la crisi economica (il debito è alla base di Debt ski ), gli assalti dei pirati somali alle navi mercantili, i crac finanziari: il mondo delle news. E ancora, i giochi come piattaforma per sensibilizzare alle grandi piaghe del pianeta: la fame (con Food force pubblicato dalle Nazioni Unite), i diritti umani ( Darfur is dying ), il surriscaldamento globale. «Ci sono giochi per insegnare ai chirurghi a operare. Altri per imparare la biologia viaggiando nel corpo umano – racconta Paolillo –. Oltre alle scuole, i videogiochi entrano nelle aziende, come quelli strategici gestionali consigliati ai manager. L’aspetto educativo del gioco, però, è il gioco: cioè un comportamento attivo che favorisce la didattica solo se non si replicano le formule fisse dell’insegnamento classico».
Pochi mesi fa a Strasburgo il rapporto conclusivo del progetto Games in Schools realizzato da European Schoolnet, network di 31 ministeri dell’Educazione europei, ha sentenziato che l’80% degli insegnanti europei è interessato al potenziale educativo dei videogiochi «perché motivano gli studenti, aumentano le competenze e personalizzano lo studio». In Italia una piccola esperienza del genere si è avuta in Trentino nel 2005 con il progetto Dant di Roberto Nasler, indirizzato all’apprendimento di grammatica e matematica. «Noi come Aesvi – spiega Persegati – abbiamo siglato un accordo con il ministro dell’Istruzione e a breve attueremo il protocollo d’intesa che permetterà la sperimentazione di videogiochi a scuola. Non come strumenti alternativi ma complementari a quelli tradizionali».
La diffidenza, è vero, sembra calare; rimane però il dubbio su un paio di cose almeno: le ore – spesso troppe – passate davanti ai videogiochi e la violenza di molti contenuti. Alienazione, distrazione, isolamento, desensibilizzazione alla violenza reale: sono le paure più diffuse. Per questo nel 2001 è nato il Pegi ( Pan European Game Information , riformato in Pegi 2.0 a settembre), sistema di classificazione per rendere più sicuri – con una divisione per età e un’indicazione dei contenuti – i videogiochi in termini di valore educativo, anche online : «Il Pegi – dice Persegati – usa scritte e icone per specificare a chi è destinato il gioco. Il problema non è che ci siano videogiochi violenti, ma evitare che finiscano in mani sbagliate, in età premature. È come nel cinema, mica si può vietare di girare film horror». Usarli con intelligenza e partecipare è il consiglio che anche Paolillo dà ai genitori: «Il controllo attivo esercitato dal genitore che videogioca con i figli è diverso da chi non lo fa. Stare accanto a loro, come davanti alla tv, per smontare i meccanismi di suggestione che nel videogioco sono più potenti per la componente di interattività». Il videogioco è l’unica forma d’intrattenimento passata da figlio in padre invece che al contrario, conclude Persegati: «Le console stanno uscendo dalle stanzette dei figli e arrivano in salotto per tutta la famiglia».
«Avvenire» del 13 dicembre 2009

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