13 dicembre 2009

Se «recuperare il ritardo» significa aprire la via a più aborti

Le indifendibili argomentazioni dei sostenitori della Ru486
di Assuntina Morresi
L’argomento cui ricorrono più spesso i sostenitori della Ru486 – per esempio alcuni ex-ministri della Salute, come Livia Turco e Umberto Veronesi – è quello secondo il quale con la pillola «finalmente» l’Italia «recupera il ritardo rispetto agli altri Paesi», dove questo metodo abortivo viene usato da più tempo.
Eppure proprio gli ex-ministri dovrebbero sapere che quello della situazione in altri Paesi è un argomento indifendibile, per il semplice motivo che sarebbe disastroso, per noi, allinearci agli altri in tema di aborto.
L’Italia è infatti l’unico Paese occidentale in cui, dal numero massimo del 1982, gli aborti sono regolarmente e costantemente calati di numero. Abbiamo la più bassa percentuale di minori che abortiscono, e il minor numero di aborti ripetuti. Non è solo l’effetto della legalizzazione, come alcuni sostengono, perché altrimenti lo stesso fenomeno si sarebbe dovuto osservare in tutti i Paesi dove esiste una legge che consente l’aborto. L’«anomalia» italiana è il risultato di una cultura diversa, di una società che nonostante tutto conserva una salda rete di rapporti familiari e per la quale la maternità va tutelata, tanto che persino la legge 194 sull’aborto ne ha dovuto tener conto, ricordandolo pure nel titolo. Un atteggiamento che si è tradotto, per la 194, in limitazioni – troppo poche, ma importanti – che altri Paesi non hanno: per esempio l’aborto in Italia, e solo in Italia, si può effettuare esclusivamente in ospedali pubblici autorizzati. I privati sono esclusi, per evitare che si possa guadagnare facendo aborti (in Italia un medico non può fare aborti come libero professionista o in cliniche private).
Che succede invece nei Paesi 'più avanzati', dove la Ru486 è diffusa? Stiamo parlando di Francia, Gran Bretagna e Svezia: in molti altri è commercializzata, ma usata poco o niente. In Svezia l’aborto fino alla diciottesima settimana di gravidanza è libero, su richiesta. Il tasso di aborti, molto più elevato che da noi, è costante e non scende. Così come in Francia, dove si interrompono circa duecentomila gravidanze all’anno, senza alcuna diminuzione. In Gran Bretagna gli aborti sono in continuo aumento, e la situazione delle minori è disperata: ogni anno abortiscono di più, e sempre più giovani.
Non è il risultato della pillola abortiva, piuttosto il contrario: è l’effetto di un atteggiamento secondo il quale l’aborto è considerato un diritto individuale anziché un problema sociale. Ed è un simile atteggiamento che favorisce la diffusione dell’aborto, anche di quello farmacologico, e quest’ultimo, a sua volta, ne è favorito.
La Ru486 non è semplicemente un metodo alternativo all’aborto chirurgico: con la procedura farmacologica l’aborto si trasforma da emergenza sociale in atto medico privato e personale. Chi oggi si rallegra del prossimo ingresso della Ru486 in Italia, spingendo perché le donne siano 'libere' di farlo a casa propria, non sta sostenendo una procedura medica, ma una posizione culturale: l’aborto non riguarda tutti noi, ma solamente chi lo fa. E se chi abortisce a casa ha problemi – come spesso succede – può 'scegliere' di tornare in ospedale.
L’aborto senza alcun dubbio è e resta la drammatica soppressione di una vita umana innocente, indipendentemente dal metodo usato. Ma è anche vero che si possono avere atteggiamenti differenti, di maggiore o minore sostegno alle maternità difficili, di maggiore o minore tendenza a diminuire il più possibile il numero degli aborti.
Se l’aborto è un diritto individuale e non un disvalore, perché prevenire? Se l’aborto è un fatto privato, per quale motivo interessarsene? Perché monitorarlo?
L’aborto a domicilio, vero obiettivo dell’introduzione della Ru486, significa rinunciare alla sua prevenzione per nasconderlo fra le mura di casa. Un mutamento culturale, con le inevitabili conseguenze che le situazioni di Francia, Gran Bretagna e Svezia ci mostrano con chiarezza.
«Avvenire» del 13 dicembre 2009

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