23 dicembre 2009

Ritorno in provincia: le cento Italie dei giovani scrittori

di Alberto Asor Rosa
Di tutto si può disputare e dubitare meno che dei dati certi. E i dati certi sono che in Italia c'è stata negli ultimi anni un' impetuosa fioritura di giovani autori di narrativa. In quali direzioni, con quali tratti comuni (ammesso che ce ne siano)? Com'è noto, fino a qualche decennio fa ragionamenti critici di tendenza e ricerca creativa crescevano il più delle volte di conserva e si aiutavano a vicenda. È un dato certo oggi anche la scomparsa pressoché totale del primo elemento dell'endiade (la critica): la conseguenza è che gli "autori", nel caso specificoi narratori, navigano a vista, al massimo con il sussidio, non sempre disinteressato, degli ufficiali di macchina ben piazzati sui ponti di comando delle case editrici. Volgendosi intorno, l' unico tentativo recente di sistemazione teorico-letteraria di tale materia degno di questo nome è New italian epic (Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro) di (dei?) Wu Ming (Einaudi, Stile libero, 2009), altamente meritorio per il solo fatto, - raro, ripeto, - di entrare nel merito.
"Epico" per Wu Ming significa fondamentalmente due cose: la presenza dominante di «imprese storiche o mitiche, eroiche o comunque avventurose»; e la caratteristica d'essere narrazioni «grandi, ambiziose, a lunga gittata, di ampio respiro, e tutte le espressioni che vengono in mente. Autori: Andera Camilleri, Carlo Lucarelli, Massimo Carlotto; e Pino Cacucci, Giusepe Genna, Giancarlo De Cataldo, Roberto Saviano, Girolamo De Michele, Letizia Muratori; in nota, quasi scusandosi delle dimenticanze, se ne aggiungono diversi altri: Antonio Pennacchi, Walter Siti, Luca Masali, Enrico Brizzi. Oddio, non sono un po' troppi e un po' troppo diversi l'uno dall'altro per fare un "discorso"? Non a caso, il sottotitolo sotto cui sono riuniti gli elenchi sopra indicati suona: "la nebulosa". Bisognerebbe tentare qualche piccolo passo avanti per capire (non per influenzare, figuriamoci!) le rotte. Com' è noto (com'è noto ai miei venticinque lettori), io attribuisco una notevole rilevanza, nella costruzione di una storia letteraria, alle scansioni generazionali: è questo un dato, più che semplicemente intellettuale e culturale, antropologico, che è sempre esistito ma tende a diventare sempre più importante (spiegabile il perché).
Ora, a me pare che la generazione dei trentenni (o, se si preferisce, dei sub-quarantenni) rappresenti oggi uno stacco abbastanza preciso rispetto persino alla generazione immediatamente precedente (quella dei quarantenni, ovvero, ora, dei sub-cinquantenni) ed esprima in qualche modo un' ambizione auto-identitaria (si può dire?), che in precedenza non esisteva, o esisteva di meno.
Ad aprire la strada a questa ricerca di identità, esattamente su quel medesimo, iniziale confine generazionale, si colloca una serie di scrittori, che s'erano assunti il compito storico davvero rilevante di ricostruire, dopo una squassante bufera, le condizioni stesse dell'agire letterario: gli Ammaniti; i Culicchia; i Fois; i Da Silva; i Pascale; gli Arpaia (bellissimo Il passato davanti a noi, 2006); quel Giulio Mozzi, la cui Felicità terrena (1996) resta un passaggio fondamentale del rinnovamento; quell'autentica Signora della Scrittura che è Melania Mazzucco; una Simona Vinci, di cui, anagraficamente (1970) ma anche letterariamente, si direbbe che non abbia ancora deciso se stare al di là o al di qua di quel confine. Di questi scrittori avevo dato, in altra sede, la definizione di «esploratori del magma». Mi sembra che ora, lasciando inalterata la connotazione dell'"esplorazione", che fa tutt'uno con la vocazione narrativa, si vada (presuntivamente) in direzione di alcune ritrovate certezze. L'elenco dei soggetti trentenni, che andrebbe non contrapposto ma integrato con quello proposto, per la parte che ci riguarda, da Wu Ming, è assai nutrito, e per giunta qui probabilmente incompleto. Andando in ordine decrescente, dal più anziano al più giovane (là dove sfondiamo il muro dei trenta per entrare nel dominio ancora più sperimentale dei venti): Maurizio Torchio, Giorgio Vasta, Luca Randazzo, Davide Longo, Ascanio Celestini, Michela Murgia, Gabriele Pedullà, Nicola Lagioia, Christian Frascella, Letizia Muratori, Cristiano Cavina, Valeria Parrella, Gaia Manzini, Andrea Bajani, Caterina Venturini, Marco Archetti, Mario Desiati, Filippo Bologna, Rosella Postorino, Rosella Milone, Martino Gozzi. Bel gruppo, no? Ne fanno parte a pieno titolo i tre componenti dell'"isola dei famosi", Piperno, Saviano e Giordano.
Continuerò a fare, nonostante le apparenze che andranno a poco a poco mutando, un discorso fondamentale descrittivo, non valutativo (consapevole peraltro che ogni buona descrizione contiene una valutazione). In questo gruppo non è difficile cogliere la presenza di (almeno) tre tendenze. La prima è quella che, più dichiaratamente, si rifà a temi, obbiettivi e linguaggi di tipo giornalistico e documentario, pur variamente trascendendoli. Ne è principe, senza ombra di dubbio, Roberto Saviano, che con Gomorra (2006) inaugura un "genere" in cui l'intreccio di realtà e d'immaginazione è spinto al più alto livello. La seconda tendenza punta decisamente sull'allegorico-immaginario: storie apparentemente reali, che però trascendono decisamente quella che con una vecchia terminologia, potremmo definire la collocazione storica del racconto. Giordano, con La solitudine dei numeri primi, (2008), ne ha dato una versione di tutto rispetto. Spero di parlarne una prossima volta. Confesso d'essere incuriosito di più dalla terza tendenza, e ne rivendico il diritto. La critica è prevalentemente un lavoro fotografico, che contempla le zoomate quando si crede di scoprire un particolare interessante. Interessante per chi? Ma ovviamente per chi lo vede. Tuttavia, spetta agli altri osservatori decidere se non era meglio guardare da un'altra parte. Per farmi capire introdurrò prima un elenco di nomi e di titoli, e solo dopo il ragionamento che ne consegue. I nomi e i titoli sono: Giorgio Vasta, Il tempo materiale (2008); Michela Murgia, Accabadora (2009); Valeria Parrella, Lo spazio bianco (2008); Mario Desiati, Il paese delle spose infelici (2008); Filippo Bologna, Come ho perso la guerra (2009); il recentissimo e sorprendente Nicola Lagioia, Riportando tutto a casa (2009). Tranquillamente potremo affiancarvi, forse su di un piano un tantino più sperimentale (o perlomeno sperimentato), Rossella Milone, La memoria dei vivi (2008), Rosella Postorino, L'estate che perdemmo Dio (2009), Christian Frascella, Mia sorella è una foca monaca (2009). Ho bisogno di precisare che si tratta di voci molto diverse fra loro, anzi contraddistinte ciascuna da un forte, fortissimo senso di sé? Spero di no. Tuttavia in queste sette-otto opere io respiro un'aria non dissimile, prodotta da polmoni e altri organi essenziali alla respirazione che hanno praticato analoghe o medesime spinte. Ritorna a galla, e da protagonista, l'"antica Italia": quella delle campagne e dei borghi, dei "bassi" e della provincia, delle desolate periferie metropolitane (Napoli, Parrella; Palermo, Vasta). Che strano! Non eravamo in tempi di globalizzazione e di cosmopolitismo? Bene, questi giovani autori riscoprono, intelligentemente e generosamente, una lezione plurisecolare, e cioè che la contemporaneità non è il presente (deviazione questa, invece, tipicamente, tardo-novecentesca). Se no, cosa pensare dei Promessi Sposi o dei Malavoglia (che sono il frutto, addirittura, di un ritorno ancestrale alle radici) o persino della Coscienza di Zeno (la quale, come ci ha insegnato Mario Lavagetto, parla di tutto meno che del presente)? L'"esplorazione del magma" sembrerebbe fissarsi finalmente sulla certezza dell'essere, anzi, di "un" essere, buono o cattivo che sia (si pensi a mo' d'esempio alla forza espressiva, persino inquietante, di certe pagine di Accabadora). Tutto ciò non sarebbe servito a nulla, ovviamente, se gli autori in questione non avessero, ciascuno per sé, una nozione molto precisa di cosa significhi scrivere un racconto, cioè narrare una storia. Cioè, di cosa significhi svolgere un'operazione che si sa e si vuole come "letteraria". "Scrivere bene",- cioè, scrivere in modo non trasandato, non verisimilistico, non banalmente documentario, non, in senso restrittivo, giornalistico, - torna ad essere un valore. E curiosamente, - curiosamente, forse, dappertutto, ma non in Italia, - nel recupero d'una lingua letteraria alta, torna a recitare un ruolo non secondario il dialetto (Vasta, Murgia, Desiati, Bologna, Parrella, Postorino, Milone). Cioè (almeno si direbbe, perché in questa materia non si sa mai): invece di andare dalla periferia verso il centro, questi giovani scrittori hanno riscoperto la strada che dal centro porta alla periferia. Ovviamente, il loro pregio letterario, - insisto: quello specificamente letterario, proprio quel che si dice il letterario", - consiste nel mantenere il centro nella periferia: nel non restarci; ma nel non perderlo. In Italia è stata più volte la strada giusta: che lo sia ancora?
«La Repubblica» del 15 dicembre 2009

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