13 dicembre 2009

Perché nell’invettiva sui giudici la ragione è di Berlusconi

di Giuliano Ferrara
Silvio Berlusconi ha detto chiaro e tondo (secondo i suoi autorevoli critici troppo chiaro e troppo tondo) che in Italia la sovranità sta passando dal Parlamento, sede della rappresentanza nazionale, al “partito dei giudici” che si avvalgono dell’appoggio della Corte costituzionale, trasformatasi da organo di garanzia in organo politico. Gianfranco Fini ha obiettato che se è vero che secondo la Carta “la sovranità appartiene al popolo” questo “la esercita nelle forme e nei limiti” previsti dalla Costituzione. Giorgio Napolitano si è rammaricato e ha difeso la Consulta con parole amareggiate.
Il punto, in linea di fatto se non di diritto, è che la sovranità popolare non è stata limitata, ma manomessa e capovolta da quando la Prima Repubblica è stata decapitata per via giudiziaria, da quando un pronunciamento della procura milanese in perfetto stile sudamericano ha imposto la sua volontà su quella del Parlamento, da quando l’uso di un avviso di garanzia per un reato del quale poi Berlusconi è stato giudicato innocente ha provocato il ribaltamento della maggioranza politica scelta dagli elettori. Organi di garanzia che agiscono sempre nello stesso senso, che anziché garantire l’esercizio della sovranità popolare la stravolgono e la capovolgono sistematicamente, hanno se non una natura, sicuramente una funzione politica. La “leale collaborazione” di cui parla il capo dello stato sarebbe una bellissima soluzione, che però è stata metodicamente negata. Questi sono i fatti, anche se essi si sono sempre ammantati di opacità varie e formali.
Proporsi di cambiare questo stato di cose attraverso modifiche costituzionali tese a restaurare la sovranità popolare e la centralità del Parlamento è perfettamente lecito. Il problema, caso mai, consiste nella strategia da adottare per ottenere il risultato. Da questo punto di vista, si può dubitare che la via migliore sia quella dell’invettiva e dell’accusa, anche se si deve constatare che tutti i tentativi precedenti di ottenere qualche risultato attraverso vie più diplomatiche sono stati bloccati. Affrontare il problema in modo esplicito fino alla irriverenza, naturalmente, comporta seri rischi e mette sotto pressione la stessa maggioranza, ha però il pregio di stabilire un criterio non ipocrita di verità e di rinviare in forme legittime al giudizio del popolo. E’ la Costituzione stessa a prevedere un giudizio popolare sulle riforme istituzionali, e questo non è populismo.
«Il Foglio» dell'11 dicembre 2009

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