11 dicembre 2009

Il pragmatismo che spiazza i teorici del sogno

Le scelte della Casa Bianca
di Andrea Lavazza
Se vuoi la pace, prepara la guerra, dicevano i Romani. Qualcosa di simile all’antico paradosso ha tentato ieri Barack Obama, nel suo discorso di Oslo per l’accettazione del Nobel. Premiato per la pace, ha tessuto una ragionata difesa della guerra: "giusta" e a volte inevitabile, ma sempre di guerra si tratta. Né il presidente americano l’ha nascosto, ricordando che i soldati possono essere onorati per il loro comportamento valoroso, eppure sappiamo che uccidono e vengono uccisi.
Qual è allora il senso di un riconoscimento al «comandante in capo di una nazione coinvolta in due conflitti», come ha ammesso in esordio lo stesso leader? Se lo sono chiesto tutti coloro che hanno espresso riserve e perplessità sulla scelta operata dal Comitato norvegese, soprattutto alla luce dell’escalation afghana decretata pochi giorni fa dalla Casa Bianca.
Obama (con i suoi speech writers) ha tentato di affrontare di petto la contraddizione, ammettendo di essere all’inizio del suo cammino e di sapere che molti avrebbero meritato più di lui l’onorificenza. Ma soprattutto rivendicando il fatto che le azioni belliche condotte dal suo Paese rientrano nella categoria delle "guerre giuste".
Con un’ulteriore mossa retorica, la «grande umiltà» professata all’inizio si tramuta così in un’ostentata sicurezza che gli Stati Uniti, sotto la sua guida, siano tornati gli alfieri dei diritti, se necessario anche sul campo di battaglia.
Certo, Hitler non sarebbe stato fermato dai discorsi dei pacifisti, né Benladen può essere persuaso alla resa con sanzioni o semplici minacce. E interventi umanitari – ad esempio, quello nei Balcani – possono avere effettivamente avuto un bilancio netto positivo. Tuttavia, il realismo di Obama, politico e anche antropologico – la guerra è nata con l’uomo e non potrà essere estirpata con i mezzi di cui oggi disponiamo –, deve essere letto oltre l’allocuzione pronunciata nel ritirare un premio divenuto "imbarazzante".
Quello che sembra guidare le intenzioni del presidente è un pragmatismo definito «post-imperiale», nel quale prevale l’interesse a difendere la sicurezza nazionale degli Usa e un loro ruolo preminente nel mondo – ieri non ha esitato, tra una citazione e l’altra di Martin Luther King, a ricordare che si riserva il diritto di agire unilateralmente –, sebbene senza più la convinzione di avere un mandato morale a esportare la democrazia e la "visione americana".
Non c’è pace senza diritti umani (compresa la libertà religiosa), senza le risorse per una vita dignitosa e senza un impegno per salvaguardare l’ambiente, obiettivi che le istituzioni internazionali devono perseguire con il sostegno di tutti, America compresa. E dove i diritti sono negati, sono consigliabili, almeno come primo approccio, il dialogo con i regimi e la pressione diplomatica, anche se ciò a qualcuno può apparire un cedimento. Insomma, Obama ha dichiarato di essere al fianco dei dissidenti che ogni giorno sfidano i governi autoritari o alle madri che lottano per dare una speranza ai propri figli, ma con la concretezza e la prudenza di chi pensa che i progressi sono forzatamente lenti e non lineari.
Una strategia che pare destinata a deludere molti dei più entusiasti sostenitori di un presidente che ha acceso nel mondo un nuovo sogno americano. E che, tuttavia, andrà valutata più sulla base dei risultati che delle enunciazioni di principio.
«Avvenire» del 10 dicembre 2009

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