17 dicembre 2009

Gödel dimostrò che la trascendenza esiste

di Andrea Vaccaro
« La presentazione che è stata fatta del mio lavo­ro era senz’altro la più bella. Venivo indicato come lo sco­pritore della verità matematica più significativa del secolo. Non devi pensare che fossi descritto come il più grande matematico del secolo.
La parola ' significativa' dice piut­tosto: ' del più grande interesse al di fuori della matematica' » . Così riferisce Kurt Gödel in una lettera alla madre Marianne, dopo l’enne­simo riconoscimento accademico al suo celebre teorema d’incom­pletezza. Sono trascorsi giusto 80 anni da questa straordinaria intui­zione ( secondo il biografo ufficiale Solomon Feferman, Gödel la con­cepì nel 1929 al tempo del­la tesi di laurea; la annun­ciò agli amici del Circolo di Vienna riuniti al Caffè Reichsrat il 26 agosto 1930 e la pubblicò nel 1931), il vecchio secolo è trapassa­to nel nuovo, ma quel teorema è rimasto la verità più significativa, feconda e suggestiva anche al di fuori della matematica o, come l’autore annota in altra circostan­za, « la prima proposizione rigoro­samente provata a proposito di un concetto filosofico » . Il concetto fi­losofico in questione è eccellente­mente rappresentato dall’antico paradosso di Epimenide, secondo cui la persona che dice: « Io sto mentendo » , se dice il vero dice il falso e se dice il falso dice il vero.
Gödel, similmente, inventando un linguaggio con cui l’aritmetica può parlare di se stessa ( tecnica poi chiamata « gödelizzazione » ), fa di­re ad un enunciato aritmetico: « Io non sono dimostrabile » . Non rie­sci a dimostrarlo, e l’enunciato si manifesta vero; riesci a dimostrare che non è dimostrabile, e vince ancora lui. In altre parole o, me­glio, con le parole di Douglas Hof­stadter ( tra menti geniali, si sa, vi­ge una certa affinità), « Gödel ha messo in evidenza che la dimo­strabilità è una nozione più debole della verità » . Al di là del rompica­po logico, comunque, tutte le volte che un soggetto tenta di rivolgere la ricerca su se stesso ( autorefe­renzialità), il teorema d’incomple­tezza è lì a provare che una mente non potrà mai conoscere compiu­tamente come funziona la mente; che un io non arriverà mai a com­prendere in modo esauriente la propria storia; che la scienza non ce la farà mai a conoscere esatta­mente il mondo, dacché si è appu­rato che il soggetto conoscente è parte integrante del processo co­noscitivo. In ognuna di queste di­namiche c’è qualcosa che sfugge costitutivamente, inafferrabile co­me l’orizzonte. La prova d’incom­pletezza è anche la prova che c’è dell’ineffabile per la ragione. In molti – su tutti Roger Penrose – hanno usato il teorema di Gödel per dimostrare la superiorità del pensiero umano nei confronti dell’intelligenza meccanizzata del­le macchine. È lecito, ma in Gödel c’è qualcosa di molto più profon­do. C’è un dato ontologico: « Che non esista la mente separata dalla materia è un pregiudizio del no­stro tempo, che sarà refutato scientificamente». C’è una certez­za non- riduzionista: « L’afferma­zione che il nostro io consista di molecole di proteine mi sembra u­na delle più ridicole mai enuncia­te » . C’è una componente di tra­scendenza: « Oggi, il razionalismo è compreso in un senso assurda­mente ristretto. Esso non deve far intervenire solo concetti logici » . A­mico intimo di Einstein, autore di una prova matematica dell’esi­stenza di Dio non edita in vita, tur­bato dall’ossessione di essere av­velenato – alla morte nel 1978 il suo peso corporeo era poco più di 30 chilogrammi –, Gödel riporta, con numeri e parole, un’esperien­za di Assoluto. Quell’Assoluto che manca alla dimostrata incomple­tezza dell’uomo.
«Avvenire» del 17 dicembre 2009

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