07 novembre 2009

Reagan, Gorbaciov e la Polonia: così l’89 sui libri di storia

Lo storico della Cattolica: visione ancora imperfetta, ma ci stiamo muovendo sulla strada giusta
di Giovanni Ruggiero
Dicono che i manuali di scuola non sono attuali, che invece «la storia siamo noi» ed altri luoghi comuni. Ma è possi­bile fare storia sere­na e corretta quan­do per storia si in­tendono fatti che so­no successi appena ieri? Sono soltanto 20 anni dalla caduta del Muro, e 20 anni stesi sul filo dei secoli sono appena un battito di ciglia. Ne parliamo con il pro­fessore Agostino Giovagnoli, ordinario di Storia contemporanea alla Cattolica di Milano.
Professore, nei manuali come sono proposti la caduta del Muro e altri fat­ti recenti? C’è serenità?
Sono eventi recenti, e sono ancora in corso le analisi degli storici. I manuali, per loro natura, sono sempre un po’ in ritardo rispetto alle acquisizioni più re­centi della storiografia. È inevitabile che prima di riversare quanto elaborato nei manuali ci sia una fase in cui il di­battito propone qualcosa di nuovo, che poi si consolida e infine finisce nel libro di testo. Oggi questi manuali propongono un’immagine della fi­ne del comunismo un po’ arretrata rispetto alla storiografia che è anda­ta più avanti. Siamo però nella stra­da giusta: ci stiamo muovendo su u­na visione, magari ancora limitata, imperfetta, che però comincia a offrire elementi solidi di riflessione, in un qua­dro piuttosto sereno, senza grandi scontri ideologici.
Il Muro, ma anche altri fatti: come piaz­za Tien An Men, o il Sessantotto, Moro, le Brigate rosse, tutto vicino a noi. È già storia tutto questo o no?
Sono convinto di sì. Credo che si possa fare storia di questi periodi ancora vi­cini. Facciamo l’esempio del ’68. Sono già quarant’anni da quei fatti, e non so­no pochi. Teniamo conto che De Feli­ce scriveva sul Fascismo nei primi an­ni Sessanta, sostanzialmente a meno di 20 anni dalla fine del regime. Ma si po­trebbe dire la stessa cosa di Spadolini, Scoppola, Acquarone e altri di una in­tera generazione di storici che in que­gli anni ’60 ponevano le basi di una sto­riografia che poi si è evoluta.
Lei, dunque, non crede che la distan­za di tempo sia fondamentale?
Più tempo permette di acquisire mag­giori conoscenze e documenti ed è chiaro che la distanza aiuta molto, però non è impossibile avere una serenità di giudizio. A condizione però che si cre­da alla importanza della conoscenza storica vera e propria, che è qualcosa di molto diverso dalla conoscenza ideo­logica e politica. In passato gli storici e­rano più condizionati dall’ideologia e dalla politica, oggi questo avviene po­co.
Ma i vari orientamenti storici non so­no comunque ideologicamente indi­rizzati?
Le divisioni di un tempo sono meno ac­centuate. Un esempio: la fine del co­munismo con il Muro. Ci sono due scuole che si confrontano: una che sot­tolinea l’importanza del ruolo dei gran­di protagonisti, Gorbaciov e Reagan, l’altra invece dà più importanza agli at­tori locali, come per esempio al ruolo avuto dalle vicende polacche. Questa contrapposizione non ha sapore ideo­logico, ma rappresenta solo una diver­genza naturale che il lavoro storico comporta quando appunto si dà più importanza a un fattore che a un altro.
Se non altro per la vicinanza dei fatti, questi sono più documentati di quelli più antichi. Della caduta del Muro ab­biamo anche i filmati. Certo non pos­sediamo quelli di Enrico IV a Canossa. Questo non significa anche una mag­giore veridicità delle fonti?
Sicuramente la storia contemporanea è caratterizzata da una maggiore quan­tità di fonti, cosa che non c’è per altri pe­riodi. È un grosso vantaggio, ma è an­che un problema, perché anzitutto non è possibile tener conto di ogni docu­mento, proprio perché sono tantissimi, e poi perché bisogna fare una scelta, as­sumere quelli più importanti e signifi­cativi. Ciò comporta una maggiore re­sponsabilità dello storico contempora­neista, che si trova anche a scegliere quali documenti privilegiare.
«Avvenire» del 7 novembre 2009

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