16 novembre 2009

Quei poeti di corte con tessera Cgil

Come Bondi più di Bondi: così un Arbasino spietato (e introvabile) «festeggiava» nel ’77 la rinascita dell’intellettuale a disposizione del potere. Un burocrate del consenso a caccia di «piccoli articoli, piccole retribuzioni, piccoli prestigi»
di Alberto Arbasino
Eppure, dopo una lunghissima storia in cui la letteratura è stata illustre e ha avuto un senso non perché celebrava il Principe e domandava Potere, ma perché seminava dubbi e magari angosce e soprattutto riflessioni molto critiche nei confronti della Realtà... proprio al culmine di un Ottocento e di un primo Novecento francese e tedesco e russo che sono stati una seminagione di angosce appunto di una intensità mai vista, ecco a un tratto una proposta niente affatto modesta: caro letterato, vorresti diventare un funzionario del nostro consenso?
... E pensare che lui credeva, sbagliando, che le Corti e i Principi fossero già finiti da un pezzo... Ora anche il letterato più “puro” rischia di essere sfiorato da una tentazione che è già corruzione: macché gruppi e generazioni, macché collezioni e recensioni! Benissimo, vi organizzerò un consenso, ma naturalmente mi servono un ufficio e una segretaria e una macchina, e giacché si tratta di un “full time” capirete bene che non posso fare a meno di uno stipendio fisso.
A questo punto, ecco presentarsi o ripresentarsi, in qualunque società, anche le migliori, due fenomeni inevitabili.
Ecco la riapparizione del Poeta di Corte, che naturalmente in vesti adatte ai tempi, “canta” positivamente eventi analoghi al Battesimo del Delfino e allo Sgravarsi dell’Infanta, e “consiglia” il Principe su una varietà di temi, dai giardini ai trattati, dalle scuole palatine alle bande musicali alle cacce, anche cacce a taluni individui.
Ecco anche una scissione piuttosto marcata fra scrittori “creativi” e “intellettuali” burocratici, le cui strade e manifestazioni e funzioni si allontanano a tal punto che anche la CGIL dovrebbe prenderne atto, realisticamente, assegnando gli uni alla categoria dell’artigianato, con gli orologiai e i tappezzieri, e gli altri a quella del pubblico impiego, con i funzionari dei ministeri e degli enti.
L’Impegno degli Scrittori, invece, continua correntemente a ridursi nella sua forma più elementare a quel tormento notissimo: quella telefonata che domanda il nome e la firma e talvolta la faccia pro o contro una iniquità che si è appena perpetrata in luoghi esotici di cui non si sa mai molto. Dunque equivale, nella sua semplicità, a scrivere «boia» o «libero» con vernice di colore diverso accanto a un medesimo nome sui muraglioni dei lungoteveri, magari in compagnia di «laziali bocchinari» e «romanisti pipparoli».
Può tuttora coincidere con quella pia illusione - tanto gratificante per gli scrittori - che «impegno» significhi trasformare concretamente per mezzo di libri di letteratura le realtà che né i governi né i partiti né i sindacati né le diplomazie né le industrie riescono a modificare con tutti gli strumenti a loro disposizione.
Oppure significa abbandonare un proprio mestiere «che si sa fare» in maniera specializzata e specialistica, appunto la Letteratura, per quella Praxis che volentieri continua a risolversi in piccoli Voli su Vienna e piccole Beffe di Buccari, senza che nel “gap” fra il discorso teorico e il trip d’azione ci si soffermi troppo a considerare quei “servizi” che interessano soprattutto alla “gente”: ospedali, treni, scuole, poste, autobus...
Ancora «impegno» come abbandono dell’attività letteraria (vituperata come cosa inutile, da vergognarsene), non per avventure di cortei e barricate e guerriglie, ma piuttosto per mansioni organizzative, manageriali, burocratiche, della cultura o d’altro. Già; però i lavori che durano e contano oltre l’attualità e le sue mode e le sue pretese e i suoi birignao sono poi i libri, e neanche poi tanti. Ma questi, bisogna pure che qualcuno li faccia. Magari, Tarchetti o Faldella. Altrimenti, chi fornirà mai (si fa per dire) piacere agli utenti e impiego ai funzionari.
Anni fa l’engagement veniva proposto in forme diverse: quelle famose illusioni di Sartre per cui la letteratura non ha senso e non vale niente finché c’è al mondo un solo bambino affamato... Ma allora non bisognava scrivere quei suoi brutti romanzi che “valgono” anche meno di un bambino che ha mangiato, e dedicare piuttosto non una battuta ma la carriera a una vigorosa propaganda antidemografica, si sa; e naturalmente, volendo, e avendo tempo, ricominciare ogni volta a chiedersi che senso hanno tutte le arti e tutte le scienze e tutta la cultura, nonché la manutenzione dei monumenti del passato, dal momento che né si mangiano né danno da mangiare, arrivando come sempre alla conclusione delle nostre nonne, che invece pensavano ai loro coetanei: ma perché la Chiesa non vende un po’ di candelabri per dar da mangiare ai poveri vecchi?
O ancora si possono rammentare quei pregiudizi tipici della Beauvoir per cui «io non scrivo, fotografo, e il documento parla da sé»: cose da turisti giapponesi, la realtà che se ne sta lì muta e insignificante finché non arriva la signora a fare le sue diapositive “parlanti” per gli amici che poi dicono «formidable!». Ma in questo engagement vecchio e piramidale, come risulta saccente e antipatico il privilegiare quel solo momento della Presa di Coscienza, come se non soltanto la Realtà stesse lì aspettando di venire «scoperta» e «rivelata», anche gli Altri, i Cittadini, i Lettori, fossero tutti Belle Addormentate che ronfano come delle coglione finché non arriva lì il maître à penser ad alfabetizzarle, a «sensibilizzarle», lui, quale deus ex machina, giacché loro, magari, da sole non ce la facevano. Povere ragazze (Foucault) quanto tempo perché gli venga un po’ di spirito ...
«Il Giornale» del 15 novembre 2009

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