03 novembre 2009

Poetessa d’amore e di Dio

di Bianca Garavelli
I ricordi più lontani tornano più il numero degli anni aumenta. Così anche per Alda Merini, na­ta il primo giorno di primavera e morta il giorno di tutti i Santi: in Uo­mini miei (Frassinelli, 2005) aveva riunito racconti della sua infanzia, e degli amati familiari. Diceva di esse­re stata «una bambina cattivissima» e che la nonna in punto di morte av­vertì di stare attenti alla «piccolina», perché era «completamente matta». In realtà libera e impulsiva, in fuga dalle regole sociali.
Alda Merini era nata nello stesso an­no di uno dei libri meno tradiziona­li della poesia italiana: il 1931, data di uscita de L’Allegria di Giuseppe Ungaretti. Anche il suo destino poe­tico sarebbe stato quello di un’asso­luta libertà formale, di un percorso originale e precoce, fin dal secondo dopoguerra, quando iniziò a scrive­re poco più che adolescente. Un de­stino di poesia «da lei mai tradito», scrive Maria Corti nella prefazione a Fiore di Poesia (Einaudi 1998), ma anche il destino di una donna che rinasce dalle proprie ceneri. La poe­sia di Alda Merini rinasce nel 1984, grazie alla mediazione della stessa Corti e di Paolo Mauri, col volume La Terra Santa (Scheiwiller). Un ca­polavoro che ha aperto la strada a molti altri libri, fino a fare di lei la vo­ce poetica più popolare dell’ultimo Novecento, insignita di riconosci­menti prestigiosi, come i premi Li­brex Montale e Viareggio, e candi­data al Nobel. Ma già trent’anni pri­ma aveva riscosso le lodi di critici e scrittori, tra cui Giacinto Spagnolet­ti, primo in assoluto a scoprirla, Gior­gio Manganelli e Carlo Betocchi. Ra­gione di un silenzio così lungo è la tragica parentesi del manicomio, in cui fu internata nel 1965 per uscirne definitivamente solo nel 1972 con al­terni ricoveri e dimissioni. Quasi die­ci anni di sospensione dalla vita che spezzano a metà la biografia della poetessa. Merini parla del manicomio come delle «mura di Gerico», con la nuova forza che le conferisce la poesia rinata, proprio ne La Terra Santa: la scrittura poetica era diventata per lei una via di salvezza.
Grazie a un’esperienza così dram­matica e feconda, è come se esistes­sero due Alda Merini: la giovanissi­ma, che scrive a 16 anni ( La presen­za di Orfeo, 1953) poesie fluide e complesse, cariche di intuizioni co­smiche sul rapporto tra la vita uma­na e quella dei sistemi fisici e stella­ri. E la matura, musa della Milano dei Navigli, dell’amore per uomini famosi e per barboni, autrice di poe­sie in cui la vita appare più spoglia, come i versi più spogli di metafore. Entrambe hanno una forza poetica unica: la capacità di leggere il mon­do come un negativo fotografico pronto per la stampa, ma ancora un evento mentale, esplosivo, difficile da condividere. La traccia lasciata dal manicomio è quella della vita che travolge, nella sua provvisorietà e ap­parente casualità. Ma l’esperienza della follia era prefigurata dalla poe­sia precedente, in cui sono più im­portanti gli eventi affettivi di quelli storici, della guerra che pure ha sconvolto la sua famiglia e la città a­mata, Milano, in cui era nata «insie­me alla primavera». È una poesia di sentimenti concreti, tangibili, da pronunciare con nomi precisi, nei primi e negli ultimi testi. Come in Nozze romane del 1955 (Schwarz), dove ansie per la vita coniugale con il primo marito Ettore Carniti si al­ternano a immagini religiose, in cui l’autrice si identifica con la Madda­lena e dedica testi a Cristo portacro­ce e a Giovanni Evangelista. E in Tu sei Pietro del 1961 (Scheiwil­­ler), l’ultimo li­bro prima del­l’internamento, dove l’amore non corrisposto per il medico Pietro De Pa­schale si carica di toni mistici, diviene presen­timento del do­lore attraverso il «cuore trafitto dal­l’amore ». Ma non c’è solo l’amore terreno: in Paura di Dio del 1955 (Scheiwiller), un’angoscia profonda si mescola all’attrazione, vertigino­sa e terribile, per Dio. Che è Padre, ma di un amore che sembra troppo grande alla donna che teme la sua «ascesa simile all’abisso». Un ugua­le istinto d’amore la spinge a scrive­re versi per Michele Pierri, il poeta di Taranto che sposò nel 1983, e per Titano, barbone in cui vede un eroi­co cavaliere in miseria ( Titano amo­ri intorno, La Vita Felice 1994).
Negli ultimi anni, in cui aveva rac­colto la sfida del genere noir con La nera novella (Rizzoli 2007), era tor­nata a un’ispirazione cosmica e reli­giosa, la cui urgenza è attestata da li­bri come l’intenso Superba è la not­te (Einaudi 2000), dove l’amore co­me un presentimento della fine si in­treccia con le «tenebre sicure» della morte che pulisce da ogni male, Mi­stica d’amore (2008), che riunisce ben cinque precedenti opere di i­spirazione religiosa, e Padre mio (2009, entrambi Frassinelli), in cui torna la figura del Padre divino, an­che incarnata nei grandi padri uma­ni della letteratura e della vita, tra cui David Maria Turoldo, «che diradava le tenebre». E da un libro che uscirà da Einaudi alla fine del 2009: Il carnevale della croce. Poesie religiose. Poesie d’amore, di nuovo con dop­pia anima, amorosa e religiosa. Un libro che purtroppo lei non vedrà.
«Avvenire» del 3 novembre 2009

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