08 novembre 2009

La vita ai tempi del Muro, vi ricordate i due blocchi?

di Pierluigi Battista
L'avvento della Guerra fredda cambiò la geografia, le denominazioni delle nazioni, i modi di dire e definire intere aree del continente europeo. Milan Kundera, esule cecoslovacco in Francia, si disperava perché una parte viva e blasonata della Mitteleuropa era stata brutalmente ribattezzata «Europa dell’Est»: come se fosse stata tout court inglobata dall’Oriente. Churchill aveva tracciato una linea spartitoria geograficamente eccentrica, «da Stettino a Trieste », per definire la «cortina di ferro» che avrebbe rinchiuso la porzione d’Europa satellizzata dal comunismo sovietico. La «Germania» diventò duplice: «le Germanie». Si spostarono confini, il caleidoscopio etnico si cristallizzò nei blocchi statali scolpiti dalla volontà di Stalin. Il Muro di Berlino arriverà dopo, quando la Guerra fredda (geniale definizione coniata da Walter Lippman) imperversava già da quasi quindici anni. Ma della Guerra fredda il Muro ha rappresentato il simbolo visivo più efficace e tragicamente suggestivo. Spaccava il mondo in due, separava con la sua imponenza simbolica due pezzi dell’Europa che avevano avuto un destino opposto dopo la Seconda Guerra mondiale. La prima, quella occidentale, era passata dall’oppressione nazista alla democrazia. La seconda, quella «dell’Est», era passata da un’oppressione totalitaria a un’altra.
Negli oltre quarant’anni di Guerra fredda, gli europei hanno avuto storie molto diverse: anche per questo, stentano a riconoscersi in un retaggio comune. Si dice che in quel periodo l’Europa non ha mai avuto guerre «calde». Ma a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968 si sono visti i carri armati stranieri per le strade, il «fraterno» intervento delle truppe del Patto di Varsavia che stringeva in un unico cappio l’Unione Sovietica e le «democrazie popolari» dell’Ungheria, della Cecoslovacchia, della Polonia, della Romania, della Bulgaria. Chi voleva svincolarsi dal cappio diventava «ipso facto» un nemico, come la Jugoslavia di Tito. Si dice che la Guerra fredda, malgrado le sue brutture e le sue nefandezze, abbia comunque assicurato un lungo periodo di stabilità di pace in Europa. Dipende dai punti di vista. È vero che la deterrenza atomica ha impedito che il conflitto «freddo» tra le due superpotenze si infiammasse in un conflitto «caldo» e potenzialmente distruttivo per l’intera umanità. Ma è anche vero che la logica inesorabile della Guerra fredda esportò la Guerra vera e propria fuori dai confini europei.
Il conflitto nel Vietnam e nel Sud Est asiatico sarebbe incomprensibile senza la Guerra fredda. Per tamponare il contagio sovietico, gli Stati Uniti vennero meno ai principi democratici solennemente proclamati e sostennero feroci dittature nell’America Latina. Lo stesso, interminabile conflitto mediorientale si caricava di significati che avevano nella Guerra fredda la loro cornice necessaria e determinante. I Paesi comunisti si trasformarono in caserme, l’esercito diventò il pilastro della società e dello Stato, le spese militari aumentarono in una misura abnorme anche al prezzo di dirottare ingenti risorse che avrebbero potuto migliorare il benessere di società vessate dalla miseria e dallo squallore. La Guerra fredda ha impedito la conflagrazione globale, lo scoppio della Terza guerra mondiale, ma è stata pur sempre una Guerra: a bassa intensità, ma una Guerra.
La Guerra fredda è stata un’epoca in cui ha dominato il sospetto e la Guerra psicologica. Il blocco comunista ha conosciuto l’onnipotenza della polizia politica, lo spionaggio interno, la delazione di massa in una misura e in arco temporale mai visti nella storia. Monumenti del terrore e dell’intimidazione sociale, risuonano ancora lugubri i nomi e le sigle che al solo pronunciarli si veniva scossi da un brivido di paura tra i cittadini dell’«Est» privi di ogni diritto e di ogni tutela: il Kgb, la Stasi nella Germania orientale, la Securitate in Romania. John Le Carré ha fatto del sospetto ingigantito da quel clima di contrapposizione totale l’epopea affascinante e narrativamente avvincente delle spie che venivano «dal freddo». Ma un premio Nobel come Josip Brodskij, e non negli anni più cupi dello stalinismo, poteva venire condannato in Unione Sovietica per «attività sovversiva» solo perché le sue poesie non erano in linea con le direttive del Partito. La Guerra fredda ha alimentato la letteratura e il cinema (a cominciare da quello americano: chi albergava negli orridi baccelloni dell’«Invasione degli ultracorpi» se non i pericolosi e insinuanti «comunisti»?) ma il caso Pasternak, il caso Kundera, il caso Solgenitsin, il caso Milosz dimostrano che dall’altra parte del Muro e della cortina di ferro l’arte e la cultura conducevano una vita grama, clandestina, sopraffatta dall’autorità senza limiti del regime. La Guerra fredda, del resto, suscita qualche nostalgia. Ma in Occidente. Chi ne ha subito le peggiori e più drammatiche conseguenze è difficile che possa rimpiangere Stati ridotti a un’immensa prigione. Non potendo sfogarsi nel calore della Guerra guerreggiata propriamente intesa, la Guerra fredda ha preso le forme di una competizione globale destinata a in vadere campi diversi da quelli, più tradizionali, della politica, dell’economia e degli armamenti. Lo sport, e in particolare le Olimpiadi, si è trasformato ben presto in un campo di battaglia che coinvolgeva significati diversi da una semplice gara tra atleti chiamati a sfilare sotto diverse bandiere. Anche la competizione per la conquista materiale e simbolica dello spazio alimentò uno spirito guerriero tra i contendenti. Gagarin e gli astronauti che piantarono la bandiera a stelle e strisce sul suolo lunare incarnavano nel sentimento popolare figure che si riallacciavano alle epopee degli eroi antichi. Anche la competizione sportiva tra le nazioni del «Patto di Varsavia» diventò il teatro in cui si rappresentava, nell’unica forma consentita, l’ostilità che i cittadini delle «democrazie popolari» nutrivano nei confronti dell’orso sovietico (a Praga, Budapest, Varsavia era obbligatorio lo studio del russo nelle scuole). La Guerra fredda sembrava interminabile. Pochissimi avrebbero potuto prevederne la fine per effetto dell’implosione di uno dei due contendenti. Si inscenava la Guerra fredda nei palazzi dell’Onu, negli stadi, al cinema, in televisione. Sembrava un orizzonte invalicabile per chissà quante generazioni. Tutti si adeguarono mentalmente, politicamente e militarmente a uno stato di cose che sembrava eterno. Persino la Chiesa cattolica improntò la sua azione ai dettami del più gelido realismo politico. Solo con l’arrivo del polacco Karol Wojtyla si cominciò a vederne l’inizio della fine. Si pensava che Gorbaciov avrebbe potuto «riformarne» i presupposti. Le fiumane di ungheresi, cecoslovacchi, tedeschi che oltrepassarono le frontiere del «socialismo reale» nell’89 dimostrarono che quella riforma aveva spalancato una voragine nella tenuta del blocco sovietico. E il Muro di Berlino rovinò nelle macerie.
La Guerra fredda seguiva logiche apparentemente imperscrutabili. Il disgelo di Krusciov suscitava speranze, si aprivano i cancelli del Gulag, la morsa di ferro dello stalinismo pareva allentarsi. Ma proprio al culmine del ciclo kruscioviano la costruzione del Muro di Berlino chiuse a chiave la fortezza dell’Est e con la crisi dei missili a Cuba si diffuse la (fondata) percezione che la Guerra fredda potesse distruttivamente riscaldarsi. Dall’altra parte gli Stati Uniti si impegnavano sì in una capillare diffusione nell’Est del verbo democratico e occidentale attraverso canali come Radio Free Europe, ma in ben due occasioni lasciarono al loro destino i cittadini prima ungheresi e poi cecoslovacchi che speravano nell’aiuto dell’America e si ritrovarono tragicamente soli, esposti alle terribili rappresaglie di Mosca. Il celebre discorso che il presidente Usa John Fitzgerald Kennedy pronunciò davanti al Muro eretto solo due anni prima raggiunse le vette dell’efficacia retorica e dell’emozione collettiva: «Ci sono persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Che vengano a Berlino. Ce ne sono alcuni che dicono, in Europa come altrove, che possiamo lavorare con i comunisti. Che vengano a Berlino… Ogni uomo libero, ovunque viva, è cittadino di Berlino. E dunque, come uomo libero, sono orgoglioso di dire ‘Ich bin ein Berliner’». Gli uomini liberi, i cittadini di Berlino dovranno aspettare altri ventisei anni prima di vedere le macerie di quel muro odioso. Altri ventisei anni di Guerra fredda.
«Corriere della sera» del 31 ottobre 2009

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