16 novembre 2009

La convivenza possibile di cristianesimo e islam

I cristiani, figli della civiltà pagana, hanno sublimato il corpo e l'incarnazione. I musulmani trascendono la fisicità e approfondiscono la dimensione astratta
di Vittorio Sgarbi
Due vicende, quelle di Sant’Antioco e Mozia, che mutano con l’apparizione delle due nuove religioni destinate a dominare il mondo, il Cristianesimo e l’Islamismo. Sant’Antioco, grazie al suo santo anomalo perché moro, nord africano convertito, e grazie soprattutto al suo santuario riverito in tutta la Sardegna, diventa un avamposto della cristianità contro il pericolo islamico, personificato dai pirati arabi che periodicamente, fino all’Ottocento, devastano le sue coste. Mozia, ormai abbandonata, non pone resistenza all’occupazione araba della Sicilia, origine di una convivenza fra locali e islamici che ancora caratterizza la vicina Mazara del Vallo. Nell’XI secolo, più o meno nel momento in cui i monaci Vittorini dovettero realizzare la Basilica di Sant’Antioco, i Normanni affidano Mozia ai Basiliani. Ma Mozia non avrà mai un santo da riverire, tanto meno un sacrario che ne conservi le spoglie e ciò la porterà alla morte, per certi versi provvidenziale, visto che ha favorito la preservazione di un patrimonio archeologico straordinario.
Il ruolo delle religioni nelle vicende di Sant’Antioco e di Mozia mi invita a fare qualche riflessione sull’incidenza che esse continuano a esercitare nelle nostre identità culturali.
La laicizzazione del mondo, figlia della civiltà industriale, non è ancora arrivata, fortunatamente, a minare il presupposto storico dei nostri attuali modi di essere. Per quanto riguarda l’Occidente cristiano, credo che la nota affermazione del laico Benedetto Croce, secondo cui non possiamo non dirci cristiani, abbia mantenuta intatta la sua validità. Sono cambiati i costumi, le mentalità, il senso stesso con cui i singoli percepiscono la fede: più personalizzato, quindi meno legato alle ritualità di gruppo, ma non fino al punto di rinnegare la matrice storica del nostro modello civile. Non credo sia stato casuale che le democrazie moderne siano nate sotto civiltà cristiane, condividendo fra di esse molti valori sociali, a partire dall’uguaglianza dei diritti. Immagino che anche per il mondo islamico ci sia stato un Benedetto Croce che abbia espresso un concetto analogo. Magari facendo riferimento a società in cui, rispetto alle nostre, c’è più religione professata ma anche meno democrazia moderna, cosa di cui va tenuto conto. La percezione che noi abbiamo del mondo arabo è che non esista al suo interno una sola persona che non sia musulmana, più ancora di quanto non potremmo dire per gli occidentali cristiani. In realtà, le cose sono più complicate.
È vero che considerarsi musulmano corrisponde al riconoscimento di una specifica condizione culturale, ma ciò non esclude che tra i musulmani vi siano visioni del mondo diverse, che in taluni possono essere di apertura e mediazione con la modernità, di tolleranza del diverso; in altri, per fortuna pochi, di chiusura, di fanatismo integralista; in altri ancora, anche di agnosticismo. Ciò non toglie che tutti questi diversi modi di essere musulmano facciano riferimento a una base di partenza comune, che è ancora determinante nel definire le formae mentis corrispondenti. Conosco personalmente lo scrittore Tahar Ben Jelloun, marocchino di nascita, francese d’adozione, che certamente non è un credente, nel senso della rigorosa fedeltà a una religione confessata. Eppure egli si considera un musulmano nei comportamenti, nel costume, nelle scelte, molti dei quali ereditati da musulmani credenti; non potrebbe fare a meno di questa parte della propria identità culturale e sentimentale che gli permette di confrontarsi in modo critico con la modernità occidentale, di cui riconosce i meriti anche rispetto alla sua emancipazione culturale, ma di cui apprezza meno l’essere tendenzialmente omologante, poco rispettosa delle diversità, anche di quelle in cui lui, oggi, si riconosce solo in parte.
Il rispetto delle civiltà a matrice religiosa non dovrebbe mai prescindere dalla presa di coscienza della loro diversità. In arte, questo è avvenuto perfettamente. L’arte occidentale, figlia di quella greco romana, pagana, ha preferito esprimere il senso del bello attraverso l’idealizzazione dell’umano, replicando, per certi versi, il processo creativo con cui la natura è stata forgiata da Dio. Nell’arte musulmana, che pure non deve poco a quella greco-romana, il senso del bello si esprime in una dimensione che prevalentemente esula dall’incarnazione umana e supera la condizione fisica, in una chiave di maggiore astrattismo mentale. Solo un ottuso occidentale potrebbe disconoscere che l’arte musulmana sia stata capace di esprimere un senso del bello altrettanto dignitoso di quello dell’arte cristiana. Le influenze fra le due arti, strettissime in alcuni momenti storici e aree geografiche, dimostrano che il reciproco interesse, quindi la sostanziale legittimazione estetica, è figlia del passato, non dei tempi recenti.
È indubbio, però, che per un occidentale i due modi di esprimere il senso del bello non siano equivalenti; uno fa parte integrante della sua identità culturale, essendo ancora motivo vivo della propria esistenza, l’altro lo è certamente di meno. Altrettanto, è ovvio, potrebbe dire un musulmano. L’una e l’altra mentalità meritano lo stesso rispetto, ma senza che ciò porti a considerarle uguali: solo un processo autoritario, di genocidio culturale, potrebbe farle diventare tali. Non siamo uguali neanche quando fra uomini di diversa matrice culturale si stabiliscono convivenze felici, come quelle che contraddistinguono già il mondo di oggi, e sempre più lo saranno in quello di domani.
«Il Giornale» del 16 novembre 2009

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