14 novembre 2009

Borges, il moderato ultrà dell’Ultraismo

Da giovane diede battaglia contro modernismo e futurismo. La sua "religione" letteraria? La metafora. In un volume riuniti gli "scritti ritrovati" degli anni Venti, con articoli aggressivi e stroncature
di Daniele Abbiati
Se fosse ancora tra noi, conierebbe sicuramente uno dei suoi meravigliosi giri di frase per commentare la notizia. Un’espressione, appunto, alla Jorge Luis Borges. La notizia, di poche settimane fa, è questa: il nostro cervello ha accesso diretto al significato di proverbi, modi di dire, frasi sottintese e giochi di parole: è, insomma, in grado di capire «al volo», senza doverle prima rielaborare, le espressioni figurate del linguaggio. Perché? Perché la metafora, cioè, borgesianamente, l’aleph del discorso simbolico, «accende» diverse aree neurali di entrambi gli emisferi cerebrali che servono a cogliere il lato «emotivo» delle frasi. Lo ha dimostrato uno studio pubblicato su Bmc Neuroscience. E sapete come si chiama la ricercatrice dell’Università di Milano Bicocca alla quale si deve la scoperta? Alice Proverbio. Il caso è decisamente più abile del diavolo: fa le pentole e anche i coperchi...
Comunque, che la scienza, in particolare la neuroscienza, si offra quale sponda amichevole alle creazioni dell’ingegno prosaico e poetico, è già di per sé sorprendente. Ma il fatto che tale consonanza valga come certificato d’idoneità di una corrente culturale farebbe gridare al miracolo se l’ultraismo (di questo stiamo parlando) non fosse la laicissima e sensualissima forma mentis letteraria che è. Il giovane Borges fu, negli anni Venti del secolo scorso, fra i suoi principali interpreti, sia in proprio, sia, soprattutto, nella veste di promotore. Gli scritti raccolti in Il prisma e lo specchio. Testi ritrovati (1919-1929) e proposti da Adelphi (pagg. 284, euro 25, curati da Antonio Melis e tradotti da Lucia Lorenzini) ci presentano un lato fra i meno conosciuti dell’Autore, quello dell’entusiasta e aggressivo agitatore di idee: insomma, un ultrà ultraista. Maturata in Spagna sul finire degli anni Dieci con Rafael Cansinos-Assens e subito diffusasi in Sud America, tale reazione al modernismo è sintetizzata da Borges in quattro punti: «1. Riduzione della lirica al suo elemento primordiale: la metafora. 2. Soppressione delle frasi mediatrici, dei nessi e degli aggettivi inutili. 3. Abolizione degli strumenti ornamentali, del confessionalismo, della puntualizzazione, delle prediche e della nebulosità ricercata. 4. Sintesi di due o più immagini in una, che così amplia la sua capacità di suggestione».
Fra «l’estetica passiva» dello specchio che riflette pedissequamente e quella «attiva» del prisma che «fa del mondo il suo strumento, e forgia - al di là delle prigioni spaziali e temporali - la sua visione personale», la scelta non può che cadere sulla seconda. Beninteso, supportata dal ritmo narrativo. Attenzione però, niente a che vedere con il futurismo: «La retorica esasperata e la brodaglia dinamista dei poeti di Milano si collocano tanto lontano da noi quanto il ronzio verbale, le ingarbugliate serie sillabiche e l’ostinato automatismo dei sonnambuli dello “Sturm” o della prolissa baraonda degli unanimisti francesi...». E nulla da spartire con il progressismo, «questo atteggiamento fastidioso di tirar fuori continuamente l’orologio». La stella polare dell’ultraismo è tutta in una definizione, perentoria alla maniera di un teorema: «Identificazione volontaria di due o più concetti diversi, finalizzata all’emozione».
Ma c’è un «ma», sulla strada di Borges, un incidente che può esser letto come la chiave di volta del successivo riposizionamento del suo stile e della sua arte, divenuti via via meno assertivi e più ipotetici, meno descrittivi e più riflessivi, meno «esterni» e più «interni». In una parola, meno ultraisti. «Nominare un qualsiasi sostantivo - scriveva nel ’21 - equivale a suggerirne il contesto visivo, e persino in parole di dichiarata intenzione uditiva come violino, tamburo, vihuela l’idea del loro aspetto precede sempre quella del loro suono e avviene quasi istantaneamente». Ebbene, l’incidente è il peggiore possibile per un autore che, lo abbiamo appena letto, poneva il vedere sullo stesso piano creativo dello scrivere: la cecità. E colpisce molto, in questo senso, la chiusa della breve prosa Bollettino di tutta una notte, che descrive un rientro a casa in piena notte: «La vista mi ha ormai abbandonato, poi lo faranno l’udito, il sognare, il tatto. Sono quasi nessuno: sono come le piante (nere d’oscurità in un nero giardino) che il giorno pieno non risveglierà. Ma non nel giorno, bensì nell’oscurità io giaccio. Sono menomato, cieco, furioso, terribile nel mio quotidiano scomparire. Sono nessuno».
Casuale prefigurazione di un dramma strisciante? Inspiegabile presentimento? Timore di aver ereditato dal padre Jorge Guillermo (non vedente dal ’14) la cecità? Ci risulta difficile pensare a una semplice metafora nata in un patio buio e silenzioso del quartiere Palermo. «Io credo davvero - afferma Borges nel ’26 - nel luogo comune per esaminare gli scrittori: è l’unica cosa in cui credo. Lo scrittore che non ci parla mai della passione, del mistero del tempo, della morte non è scrittore». Detto da lui, suona come un generoso incoraggiamento a tutti. Purché consapevoli di un’altra verità: «Ogni parola implica un argomento che probabilmente è un sofisma».
«Il Giornale» del 14 novembre 2009

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