28 novembre 2009

Addio a Zaslavsky, svelò l' asse Pci-Urss

Lo storico russo denunciò i crimini del comunismo
di Antonio Carioti
Negli
Non finiva di stupirsi, Victor Zaslavsky, per il pregiudizio favorevole di cui il comunismo godeva (e in parte ancora gode) nel nostro Paese. Lo studioso di origine russa, scomparso improvvisamente ieri a Roma, era nato a Leningrado (oggi San Pietroburgo) nel 1937 e aveva conosciuto da ragazzo l'atmosfera asfissiante del regime di Stalin; poi da adulto, prima di emigrare in Occidente, era vissuto sotto la plumbea stagnazione brezneviana. Gli era difficile comprendere l'indulgenza di troppi intellettuali italiani verso un sistema dalle evidenti caratteristiche totalitarie. Altrettanto sconcertante gli appariva il tentativo pervicace di negare l'appartenenza organica del comunismo italiano, ben oltre il 1945, alla stessa famiglia politica che aveva prodotto ovunque dispotismo e miseria. Tanto più dopo che l'apertura degli archivi russi, in seguito alla dissoluzione dell'Urss, aveva permesso di osservare da vicino i meccanismi del «legame di ferro» tra il Pci e il Cremlino. Nel libro Togliatti e Stalin (Il Mulino, 1997), scritto insieme alla moglie Elena Aga Rossi, Zaslavsky aveva certificato che la «svolta di Salerno» del 1944 era stata decisa a Mosca, su impulso determinante del tiranno sovietico, e che l'intervento dell'Armata Rossa in Ungheria nel 1956 era stato non solo approvato, ma anche sollecitato dal leader storico del Pci. Nel successivo saggio Lo stalinismo e la sinistra italiana (Mondadori, 2004) aveva posto in luce come nell'immediato dopoguerra la rinuncia alla via insurrezionale, da parte dei comunisti italiani, fosse riconducibile in larga misura alle scelte geopolitiche dell'Urss. In questo modo, inserendo la storia del Pci nel quadro di un movimento mondiale controllato saldamente da Mosca almeno fino alla morte di Stalin, Zaslavsky aveva portato negli studi sul comunismo in Italia un punto di vista innovativo e spiazzante, corrispondente agli sviluppi della storiografia internazionale. E alcuni non glielo avevano perdonato. Nell'impossibilità di negarne le acquisizioni, supportate da un'ampia documentazione d'archivio, si era cercato di ridimensionarle diffondendo un'immagine caricaturale del suo lavoro, come animato da un anticomunismo cieco e irragionevole. Zaslavsky non se la prendeva troppo. Era dotato di un senso innato dell'ironia che lo rendeva superiore alle baruffe ideologiche. Del resto fuori dai confini dell' Italia, dove aveva a lungo insegnato in prestigiosi atenei (da Stanford a Berkeley), era un autore apprezzato, tanto per le opere di taglio sociologico, da Il consenso organizzato (Il Mulino, 1981) a Storia del sistema sovietico (Nuova Italia Scientifica, 2001), quanto per quelle storiche come Pulizia di classe (Il Mulino, 2006) sull' eccidio di Katyn. Che il provincialismo progressista nostrano trovasse disdicevole la sua avversione al totalitarismo comunista non era un problema suo. Era, anzi è, un problema dell'Italia.
«Corriere della sera» del 27 novembre 2009

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