29 settembre 2009

Tanti morti poche verità

Di Giampaolo Pansa
I killer rossi e neri parlano di continuo sui giornali e in tv. Ma non c'è storia senza memoria limpida I terroristi in cattedra, liberi ma non di mentire. Diceva così il titolo di un articolo di Andrea Casalegno, pubblicato il 10 maggio 2008 sul 'Sole 24 Ore'. Il figlio del giornalista assassinato dalle Br a Torino scriveva dopo il monito di Giorgio Napolitano, molto netto nel condannare che i killer rossi e neri stiano di continuo sui media stampati e in tivù come maestri di vita. Andrea concedeva agli ex della lotta armata una sola possibilità: di parlare a condizione che dicano la verità.
Dire la verità? Ecco una pia illusione. I terroristi in libertà non la diranno mai. Non l'hanno detta quando sparavano o stavano in carcere. Perché dovrebbero dirla oggi che li abbiamo rimessi all'onor del mondo? Del resto, per limitarci alla storia del terrorismo più lungo e sanguinoso, quello delle Brigate Rosse, non hanno fatto altro che mentire. Con la menzogna diffamavano le vittime e ne motivavano l'assassinio. In questo modo, chi veniva ucciso o invalidato era colpito tre volte: con le pallottole, con il volantino di rivendicazione e con l'alone di sospetto che subito lo avvolgeva. Riassunto da parole che ho ascoltato troppe volte: "Se gli hanno sparato, una ragione ci sarà.".
Ma la guerra delle Br ha avuto anche un'altra faccia. È quella della politica e dei media che dovevano spiegare e raccontare il terrorismo brigatista. Pure su questo versante, per faziosità ideologica o per stupidità, si sono dette più menzogne che verità. Prima si sostenne che erano fascisti. Poi che erano mercenari al servizio della Confindustria. Quindi che erano agenti della Cia americana o del Kgb sovietico. Infine che si trattava di golpisti messi in azione dalla Loggia P2. Rileggere certe cronache lascia stupefatti. La stampa comunista definiva Curcio "un congiurato nero". Anche i socialisti mentivano: l''Avanti!' scriveva che dietro la sigla Br c'erano neofascisti e criminali comuni. Meglio non parlare della stampa laica, democratica e antifascista. Quando si scoprirono i primi covi brigatisti, spiegò che erano finti: allestiti dalla questura di Milano per far contento qualche magistrato.
Ancora oggi ci sono giornalisti che rifiutano di vedere il contesto di crimini che pure li riguardavano da vicino. È il caso di Arrigo Levi, un collega esperto, che dirigeva 'La Stampa' quando le Br assassinarono Casalegno, il suo vice direttore. In quei giorni, Eugenio Scalfari, che allora guidava 'Repubblica', mi mandò a Torino per raccontare quel delitto. Dopo il primo servizio, Scalfari mi chiese di capire come la pensassero gli operai della Fiat. E così andai al cancello 2 della Mirafiori, in corso Tazzoli, per interrogare chi usciva da un turno e chi ne iniziava un altro. Raccolsi molti giudizi disparati e scelsi di pubblicarne un campione. Quindici erano di condanna netta del terrorismo, undici incerti, due indifferenti e quattro rivelavano adesione o simpatia per le Br. Uno di questi diceva: "Scrivi: dieci, cento, mille Casalegno. A me mi vanno bene".
A Levi quel servizio non piacque per niente. Pubblicò un editoriale arrabbiato per sostenere che volevo fare della sensazione e che avevo dato un ritratto "profondamente falso" di Torino e della sua reazione all'attentato. Storie vecchie, penserà qualcuno. Ma non è così. Ancora oggi, Levi, intervistato proprio da 'Repubblica' il 6 maggio 2008, ripete che avevo sbagliato a preparare quell'articolo. E ricorda che mi fece rispondere da Furio Colombo, "il quale scrisse che Pansa non aveva capito nulla del sentimento che animava la città".
L'articolo di Colombo non lo ricordo. Ma rammento bene che cosa vidi a Torino in quei giorni. A Mirafiori e in altre fabbriche, come la Lancia di Chivasso, lo sciopero per Casalegno fallì. Al comizio in piazza San Carlo c'era poca gente, nonostante la presenza del sindaco comunista, Diego Novelli, accanto a Levi. La città aveva paura o mostrava indifferenza. I tre sindacati, Cgil, Cisl e Uil, non erano credibili, anche perché il loro manifesto chiamava alla protesta "contro il terrorismo di stampo fascista". Era la stessa formula assurda del volantino interno alla 'Stampa', firmato dal Comitato di redazione e dal Consiglio di fabbrica. Il loro ordine del giorno definiva l'attentato a Casalegno "un vile atto di chiara marca fascista". Del resto, che aria tirasse dentro il giornale di Levi lo ha rivelato di recente una coraggiosa testimonianza di Riccardo Chiaberge, pubblicata dal 'Sole 24 Ore' pochi mesi fa, il 4 novembre 2007. Con un titolo che dice tutto: "Quei giornalisti contro Casalegno".
Mi fermo qui per non turbare di nuovo l'amico Levi. Ma voglio essere chiaro: non c'è storia senza memoria limpida. E senza verità. Cominciamo a dirla noi, perché dai pensionati del terrorismo non la sapremo mai.
«L’Espresso» del 16 maggio 2008

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