22 settembre 2009

Gli individui non esistono fuori dalle loro comunità

Una scuola filosofica contesta l'idea dello Stato come somma di singoli: "Le persone non sono entità separate, ma fanno parte di una cultura". Come già nel pensiero greco, l'uomo è innanzitutto un "animale sociale"
di Alain de Benoist
La crisi del modello rappresentato dallo Stato nazionale rigenera l’idea di comunità, che assume nuove forme e significati. Le comunità non associano più le persone solo per l’origine comune e le caratteristiche dei componenti: nel moltiplicarsi di tribù, flussi e reti, esse ormai raggruppano tipi diversissimi. Imponendosi come possibile forma di superamento della modernità, le comunità perdono lo status «arcaico», a lungo attribuito loro dalla sociologia. Più che stadio della storia, abolito dalla modernità, appaiono come forma permanente dell’umano associarsi.
In tale quadro figura la comparsa e lo sviluppo nel Nord America, dagli anni Ottanta, d’una corrente di pensiero che oltre Atlantico ha provocato innumerevoli dibattiti, ma che l’Europa ha scoperto più di recente: il «movimento» comunitario, costellazione rappresentata dai filosofi Alasdair MacIntyre, Michael Sandel e Charles Taylor.
Il movimento comunitario enuncia una teoria che combina strettamente filosofia morale e filosofia politica. Sebbene abbia una portata più vasta, la teoria è stata elaborata, da un lato, in riferimento alla situazione degli Stati Uniti, con l’inflazione della «politica dei diritti», la disgregazione delle strutture sociali, la crisi dello Stato-Provvidenza e l’emergere della problematica «multiculturalista»; dall’altro, in reazione alla teoria politica liberale, riformulata da Ronald Dworkin, Bruce Ackerman e soprattutto John Rawls. Quest’ultima si presenta come una teoria dei diritti (soggettivi), fondata su un’antropologia individualista. Nell’ottica dell’«individualismo possessivo» (Macpherson), ogni individuo è agente morale autonomo, «padrone assoluto delle sue capacità», alle quali ricorre per soddisfare i desideri espressi o rivelati dalle sue scelte. L’ipotesi liberale dunque prevede un individuo separato, un tutto completo a sé stante, che cerca d’accrescere i vantaggi con libere scelte, volontarie e razionali, senza che esse siano considerate frutto di influenze, esperienze, contingenze e norme del contesto sociale e culturale.
Invece il punto di partenza dei comunitari è anzitutto d’ordine sociologico ed empirico: constata la dissoluzione dei legami sociali, lo sradicamento delle identità collettive, la crescita degli egoismi. Sono gli effetti d’una filosofia politica che provoca l’atomizzazione sociale, legittimando la ricerca da parte di ognuno del maggior interesse, restando così insensibile ai concetti d’appartenenza, di bene comune e di valori condivisi.
Il maggior rimprovero dei comunitari all’individualismo liberale è di dissolvere le comunità, elemento fondamentale e insostituibile dell’esistenza umana. Il liberalismo svaluta la vita politica, considerando l’associazione politica un puro bene strumentale, senza vedere che la partecipazione dei cittadini alla comunità politica è un bene intrinseco; perciò non può rendere conto d’un certo numero d’obblighi e impegni, come quelli non risultanti da scelta volontaria o impegno contrattuale, come i doveri familiari, l’obbligo di servire la patria e d’anteporre l’interesse comune a quello personale. Il liberalismo propaga una concezione erronea dell’io, non ammettendo che esso rientri sempre in un contesto socio-storico e, almeno in parte, che sia costituito da valori e impegni non sottoposti a scelta e non revocabili a piacere. Suscita un’inflazione della politica dei diritti, che poco ha a che fare col diritto in quanto tale, e un nuovo tipo di sistema istituzionale, la «repubblica procedurale». Infine, col suo formalismo giuridico, misconosce il ruolo centrale di lingua, cultura, costumi, pratiche e valori condivisi, come basi d’una vera «politica di riconoscimento» di identità e diritti collettivi.
La teoria comunitaria si pone dunque in una prospettiva «olistica». L’individualismo liberale definisce il singolo come ciò che resta del soggetto, una volta privato di caratteristiche personali, culturali, sociali e storiche, cioè estratto alla comunità. D’altronde postula l’autosufficienza del singolo rispetto alla società e sostiene che egli persegue il maggiore interesse con scelte libere e razionali, senza che il contesto socio-storico influisca sulla sua capacità d’esercitare i «poteri morali», cioè di scegliere una particolare concezione di vita. Per i comunitari, invece, un’idea presociale dell’io è impensabile: l’individuo trova la società preesistente ed essa ne ordina i punti di riferimento, ne costituisce il modo di stare al mondo e ne modella le ambizioni.
Per i comunitari, l’uomo è anzitutto «animale politico e sociale» (Aristotele). Così i diritti sono espressione di valori propri di collettività o gruppi differenziati, ma riflesso d’una teoria più generale dell’azione morale o della virtù. La giustizia si confonde con l’adozione d’un tipo d’esistenza secondo i concetti di solidarietà, reciprocità e bene comune. Quanto alla «neutralità» di cui s’ammanta lo Stato liberale, è vista sia come disastrosa nelle conseguenze, sia - più generalmente - come illusoria, perché rimanda implicitamente a una singolare concezione del bene, che non si confessa tale. Una vera comunità non è l’unione o la somma degli individui. I suoi membri, in quanto tali, hanno fini comuni, legati a valori o esperienze, non solo interessi privati più o meno congrui. Questi fini sono tipici della comunità, non sono obiettivi particolari uguali per tutti o per la maggioranza dei membri. In una semplice associazione, gli individui guardano i loro interessi come indipendenti e potenzialmente divergenti. I rapporti fra questi interessi non sono dunque un bene in sé, ma solo un mezzo per ottenere i beni particolari cercati da ciascuno. Mentre la comunità, per chi vi appartiene, è un bene in sé.
(Traduzione di Maurizio Cabona)
«Il Giornale» del 22 settembre 2009

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