Settant’anni fa la modifica del Patto Ribbentrop-Molotov che diede mano libera all’Urss su Estonia, Lettonia e Lituania
di Paolo Simoncelli
Settant’anni dall’'altra' guerra. Dopo le manifestazioni dei primi di settembre di memoria, esecrazione, impegni ecc., la macchina cerimoniale si è fermata. E dunque non ha ricordato l’inizio politicodiplomatico appunto dell’'altra' guerra, quella che iniziò con l’aggiornamento, firmato a Mosca il 28 settembre ’39 del patto Ribbentrop-Molotov (mentre a Varsavia ancora si combatteva e la Polonia era già stata invasa alle spalle anche dai sovietici); una guerra però che non si concluse con la resa tedesca del maggio ’45 e neanche col trattato di pace di Parigi del ’47. Col nuovo patto tedesco-sovietico, ormai tutti i tre Stati baltici Estonia, Lettonia e Lituania, passavano nella 'sfera d’influenza' sovietica. Detto, fatto. Patti di cosiddetta mutua assistenza costrinsero già il 28 settembre l’Estonia e poi il 5 e 10 ottobre Lettonia e Lituania a consegnare basi aeronavali e a far stanziare sui loro territori forze armate sovietiche.
Era la fine del brevissimo periodo d’indipendenza goduto dalla loro nascita, nel 1918, a seguito della fine dell’impero zarista e della Grande guerra. L’annessione sovietica, mascherata dalla 'mutua assistenza', fu brutalmente formalizzata pochi mesi dopo.
Nascevano allora le prime organizzazioni di resistenza, i primi nuclei partigiani: i 'fratelli della foresta' estoni e lettoni, l’esercito lituano della libertà. Un altro 'olocausto' sarebbe venuto così ad aggiungersi a quello antiebraico.
All’insegna dell’espulsione di 'elementi antisovietici e antirivoluzionari' iniziarono le deportazioni in Siberia di esponenti politici non comunisti, ufficiali, proprietari, impiegati statali e rispettive famiglie; il 14 giugno del ’41, a seguito di un decreto del mese precedente del Comitato centrale del Pcus che indicava nove categorie sociali pericolose, cominciò la settimana delle deportazioni di massa, e contestualmente s’incrementò la resistenza partigiana all’insegna del 'non lasciarti deportare', cui seguì la reazione sovietica (che in Lituania provocò la soppressione feroce, per crocifissione di decine e decine di sacerdoti). Oggi nelle comunità baltiche, quel giorno è celebrato come 'il giorno dell’olocausto'.
Quasi in contemporanea, l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica, il 21 giugno, rimescolò le carte. La resistenza baltica si trovò paradossalmente a fianco dei corresponsabili della fine della libertà. La controffensiva sovietica riportò l’Armata rossa nei Paesi baltici nel ’44. Ripresero deportazioni di massa e resistenza partigiana consapevole di non poter contare sull’aiuto di nessuno Stato. Secondo fonti sovietiche, nel ’47 sarebbero stati 'neutralizzati' nella sola Estonia quindicimila 'fratelli della foresta', ma a metà degli anni ’50 ancora si combatteva. A quella data si potevano censire più di un milione di deportati. Né la morte di Stalin interruppe la repressione; rallentarono ma non furono sospese le deportazioni. Malgrado amnistie e 'riabilitazione' (che consentono oggi di disporre di cifre parziali come quelle relative al ritorno dai lager della Siberia di circa tredicimila lettoni, pari appena a poco più dell’otto per cento dei connazionali detenuti), ancora alla fine degli anni ’50 centinaia di migliaia di baltici venivano deportati. Per avere un’idea delle dimensioni, basti dire che negli anni ’70 ne tornarono poco meno di sessantamila (che dunque vent’anni dopo la morte di Stalin erano ancora nei lager).
«Siamo più lituani in Siberia che in Lituania»: non era un motto. E agli scampati, amnistiati, riabilitati, veniva comunque impresso un bollo sui documenti d’identità che li escludeva dalla possibilità di accedere a scuole superiori, impieghi, uffici pubblici... Erano i 'marcati'; che al loro ritorno trovavano una patria snazionalizzata, con la storia dei loro Paesi riscritta all’insegna della palingenesi socialista, in presenza non solo dell’occupazione militare sovietica, ma dell’occupazione economica dei russi che erano stati 'importati' nei Paesi baltici a prendere il posto dei deportati. E trovavano anche la Collina delle croci, il luogo a poca distanza da Vilnius che fin dalla metà ’800 era diventato simbolo della devozione religioso-popolare per i morti per la libertà, abbattuta dalle ruspe sovietiche; un lavoro che, dovette essere più volte replicato ancora a fine anni ’70 dato che, malgrado lo sorveglianza dell’Armata rossa e del Kgb, le croci notturnamente rinascevano! Sarebbe stata visitata con commozione da Giovanni Paolo II il 7 settembre ’93. A dar coraggiosamente voce all’'olocausto baltico' fu uno dei più diffusi fogli clandestini, The Chronicle of the Lithuanian Catholic Churc , nato nel maggio 1972 che per circa vent’anni fu il samizdat più seguito e perseguitato dal Kgb; ma che pure riuscì a pubblicare lettere di deportati, documenti sulle violenze etniche, appelli all’Onu per il rispetto dei diritti umani, fino a quello clamoroso, in occasione degli accordi di Helsinki, che mise in grave imbarazzo i freschi firmatari sovietici (che reagirono con ulteriore violenza repressiva contro la dissidenza baltica). Tra le tante rischiose iniziative prese allora, vi fu un appello alle autorità sovietiche, nel 1987, per rendere pubblici i protocolli dei patti Ribbentrop-Molotov. Già, erano segreti per i baltici. Li vogliamo (almeno) ricordare in Occidente?
Era la fine del brevissimo periodo d’indipendenza goduto dalla loro nascita, nel 1918, a seguito della fine dell’impero zarista e della Grande guerra. L’annessione sovietica, mascherata dalla 'mutua assistenza', fu brutalmente formalizzata pochi mesi dopo.
Nascevano allora le prime organizzazioni di resistenza, i primi nuclei partigiani: i 'fratelli della foresta' estoni e lettoni, l’esercito lituano della libertà. Un altro 'olocausto' sarebbe venuto così ad aggiungersi a quello antiebraico.
All’insegna dell’espulsione di 'elementi antisovietici e antirivoluzionari' iniziarono le deportazioni in Siberia di esponenti politici non comunisti, ufficiali, proprietari, impiegati statali e rispettive famiglie; il 14 giugno del ’41, a seguito di un decreto del mese precedente del Comitato centrale del Pcus che indicava nove categorie sociali pericolose, cominciò la settimana delle deportazioni di massa, e contestualmente s’incrementò la resistenza partigiana all’insegna del 'non lasciarti deportare', cui seguì la reazione sovietica (che in Lituania provocò la soppressione feroce, per crocifissione di decine e decine di sacerdoti). Oggi nelle comunità baltiche, quel giorno è celebrato come 'il giorno dell’olocausto'.
Quasi in contemporanea, l’aggressione tedesca all’Unione Sovietica, il 21 giugno, rimescolò le carte. La resistenza baltica si trovò paradossalmente a fianco dei corresponsabili della fine della libertà. La controffensiva sovietica riportò l’Armata rossa nei Paesi baltici nel ’44. Ripresero deportazioni di massa e resistenza partigiana consapevole di non poter contare sull’aiuto di nessuno Stato. Secondo fonti sovietiche, nel ’47 sarebbero stati 'neutralizzati' nella sola Estonia quindicimila 'fratelli della foresta', ma a metà degli anni ’50 ancora si combatteva. A quella data si potevano censire più di un milione di deportati. Né la morte di Stalin interruppe la repressione; rallentarono ma non furono sospese le deportazioni. Malgrado amnistie e 'riabilitazione' (che consentono oggi di disporre di cifre parziali come quelle relative al ritorno dai lager della Siberia di circa tredicimila lettoni, pari appena a poco più dell’otto per cento dei connazionali detenuti), ancora alla fine degli anni ’50 centinaia di migliaia di baltici venivano deportati. Per avere un’idea delle dimensioni, basti dire che negli anni ’70 ne tornarono poco meno di sessantamila (che dunque vent’anni dopo la morte di Stalin erano ancora nei lager).
«Siamo più lituani in Siberia che in Lituania»: non era un motto. E agli scampati, amnistiati, riabilitati, veniva comunque impresso un bollo sui documenti d’identità che li escludeva dalla possibilità di accedere a scuole superiori, impieghi, uffici pubblici... Erano i 'marcati'; che al loro ritorno trovavano una patria snazionalizzata, con la storia dei loro Paesi riscritta all’insegna della palingenesi socialista, in presenza non solo dell’occupazione militare sovietica, ma dell’occupazione economica dei russi che erano stati 'importati' nei Paesi baltici a prendere il posto dei deportati. E trovavano anche la Collina delle croci, il luogo a poca distanza da Vilnius che fin dalla metà ’800 era diventato simbolo della devozione religioso-popolare per i morti per la libertà, abbattuta dalle ruspe sovietiche; un lavoro che, dovette essere più volte replicato ancora a fine anni ’70 dato che, malgrado lo sorveglianza dell’Armata rossa e del Kgb, le croci notturnamente rinascevano! Sarebbe stata visitata con commozione da Giovanni Paolo II il 7 settembre ’93. A dar coraggiosamente voce all’'olocausto baltico' fu uno dei più diffusi fogli clandestini, The Chronicle of the Lithuanian Catholic Churc , nato nel maggio 1972 che per circa vent’anni fu il samizdat più seguito e perseguitato dal Kgb; ma che pure riuscì a pubblicare lettere di deportati, documenti sulle violenze etniche, appelli all’Onu per il rispetto dei diritti umani, fino a quello clamoroso, in occasione degli accordi di Helsinki, che mise in grave imbarazzo i freschi firmatari sovietici (che reagirono con ulteriore violenza repressiva contro la dissidenza baltica). Tra le tante rischiose iniziative prese allora, vi fu un appello alle autorità sovietiche, nel 1987, per rendere pubblici i protocolli dei patti Ribbentrop-Molotov. Già, erano segreti per i baltici. Li vogliamo (almeno) ricordare in Occidente?
«Avvenire» del 24 settembre 2009
Troppi sono gli orrori che non conosciamo, che dimentichiamo o che volutamente ignoriamo. Non è in questo modo che possiamo costruire un futuro migliore.
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