30 agosto 2009

Quei capolavori del ’900 non compresi da critica, editoria e mercato

Errori e sviste dell’editoria italiana
di Massimo Onofri
Il libro, uno dei più mitizzati del Novecento italiano, s’intitola Le lettere ed appare nell’agosto del 1914 per l’editore Bontempelli di Roma. L’ha scritto il giovane Renato Serra, che vi tenta un bilancio generale dell’attività letteraria italiana in corso. De Roberto vi è appena nominato (e non per il suo capolavoro, I Viceré): ma solo un gradino più su di Beltramelli, ritenuto, sulla scorta di Croce, scrittore poco originale e faticato, epperò sincero. Anche Pirandello – che aveva già scritto alcune formidabili novelle, Il turno, L’esclusa, Il fu Mattia Pascal, I vecchi e i giovani, il saggio L’umorismo – vi figura, ma ritratto sullo sfondo, e dentro un mediocre quadretto di famiglia, tra Grazia Deledda, Amalia Guglielminetti e gli ormai dimenticati – alzi la mano chi se li ricorda: eppure, allora, godevano d’un grande successo di pubblico – Luciano Zuccoli, Virgilio Brocchi e Carola Prosperi. Il libretto di Serra ha l’indubbio e per niente piccolo merito di fare il punto anche sugli aspetti materiali, non solo estetici, della circolazione libraria, anticipando di molto quegli approcci sociologici, e di mercato, che pure sono così importanti per capire al meglio la storia culturale d’un Paese: ma il quadro dei valori che ne emerge, in pagine che scommettono sull’eccellenza dello squisito Alfredo Panzini, resta sconfortante. Non credo valga appellarsi a uno di quei principi inviolabili della ricerca storica: che, cioè, la visuale del Serra era troppo ravvicinata per rimproverargliene l’attendibilità. Basterebbe solo opporre l’esempio di Giuseppe Antonio Borgese che dal Serra, nel suo libello, viene letteralmente massacrato, il quale nel 1929 (e dalle colonne del più importante quotidiano italiano, il Corriere della Sera) non mancava l’appuntamento con due ventenni che, per di più, avevano pubblicato quasi alla macchia, mentre li consegnava per sempre a formule critiche di straordinaria suggestione: dico Mario Soldati e Alberto Moravia.
Se ho citato il libro di Serra è perché resta una perfetta dimostrazione di quali e quante imprevedibili alchimie stiano a capo di quel processo attraverso cui un autore o un’opera vengono consacrati e canonizzati. Per un canone di valori che, con buona pace di Harold Bloom, resta sempre instabile e oscillante: quando è vero che persino l’immane Dante, magari su autorizzazione del Bembo di turno (che non era certo uno qualsiasi), ne ha conosciuto, in qualche momento, l’esclusione. Alchimie, bisognerà aggiungere, che nel nostro Novecento hanno contato sulla combinazione di tre fondamentali elementi: critica, editoria, mercato. Se torniamo ai tre padri fondatori italiani del secolo scorso – Pirandello, Svevo, Tozzi –, ci si rende conto di come sia stata propria la critica, oggi così negletta, a giuocare il ruolo principale. Senza Tilgher, che pure ne fece un mezzo filosofo tedesco (suscitando le giuste rampogne di Croce), il successo di Pirandello non sarebbe stato lo stesso. Quanto a Svevo, i cui primi due romanzi non psicanalitici – Una vita e Senilità – furono appena notati dalla sola stampa triestina, ineludibile è la domanda: senza l’intercessione di Joyce che favorì il trionfo francese della Coscienza di Zeno, e l’intervento immediatamente successivo d’un già autorevole Montale, le cose sarebbero andate come sono andate? Non dico poi di Tozzi, la cui opera ebbe come erede testamentario il solito Borgese (che, a dire il vero, ci mise anche pesantemente le mani), per un’immagine oggi di fondamentale rilievo sperimentale e epistemologico, che tutto deve alle indagini decisive di Debenedetti e Baldacci.
Si può trascurare, dentro un discorso sui capolavori contrastati del Novecento, il caso Morselli? Certamente no: visto che, a valle di quell’incolmabile frustrazione (infinitamente procrastinata) per la mancata pubblicazione dei suoi romanzi, ci scappò persino il suicidio dello scrittore. Del resto: come poteva trovare asilo, nell’Italia di tutti gli storicismi progressivi, uno scrittore che calava la politica e l’ideologia dentro un dramma privato ed esistenziale (Il comunista), oppure così beffardamente controstorico da costruire un romanzo (e un futuro) a partire dall’ipotesi d’una Prima guerra mondiale vinta, invece che dalle potenze dell’Intesa, dagli Imperi centrali (Contro-passato prossimo), con incredibili conseguenze: e non voglio dire d’un altro libro, pure fantasticato dentro i territori della distopia, come Roma senza papa. Per certificare le ingiurie dei contemporanei ai danni del genio, s’è fatto spesso, quanto a Morselli, l’esempio del conterraneo e allora popolarissimo Piero Chiara. Oggi Morselli è celebrato dal prestigioso impegno della casa editrice Adelphi, mentre Chiara giacerebbe negletto nella sua tomba, quasi del tutto ignorato (e assai ingiustamente), se non ci fosse stato il recente Meridiano Mondadori a riportarlo all’attenzione di pubblico e critica: questo, per dire dei ritmi inesorabili d’un pendolo che oscilla, misterioso, tra oblìo e glorificazione.
Tutta colpa degli editori, allora? Forse sì e forse no, se è vero che il postumo Gattopardo, altro clamoroso caso di metà secolo e primo best seller italiano, fu certo rifiutato da Einaudi, per essere però pubblicato dalla mitica Feltrinelli gestione Bassani: laddove l’einaudiano Vittorini, per altro, come ha definitivamente dimostrato Gian Carlo Ferretti, ha molte meno colpe (se poi ne ha davvero avute), nella censura del capolavoro, di quante una vulgata dura a morire continua ad attribuirgliene.
Senz’altro no, invece, se si pensa a Stefano D’Arrigo la cui Horcynus Orca è stata di recente considerata da George Steiner, insieme a Il giorno del giudizio di Salvatore Satta, il vero capolavoro della letteratura italiana del Novecento: un’opera mastodontica in cui la lingua va come in metastasi, radicalmente anticommerciale, che non sarebbe mai esistita se Arnoldo Mondadori non avesse assicurato allo scrittore, e per anni, un congruo stipendio per cui potesse lavorare in pace. Ho citato Satta, scrittore stupefacente (nonché teorico del diritto di altissimo livello), la cui famiglia, prima di conoscere la consacrazione (ancora postuma) adelphiana, fece molta fatica a far stampare il romanzo, che inizialmente finì nelle collane d’una casa editrice specializzata in pubblicazioni giuridiche come la Cedam.
Va pure detto, però, che ci sono stati scrittori che hanno fatto di tutto per resistere agli editori che volevano pubblicarli. Ultimo, il caso di Gesualdo Bufalino, autore tra i più struggenti e significativi di fine secolo scorso: Elvira Sellerio, Leonardo Sciascia ed Enzo Siciliano, che avevano intuito il romanziere occultato nell’elegantissima prefazione che aveva redatto per un libro di vecchie foto comisane, dovettero fare di tutto, ed anche di più, per stanare il vecchio e renitente professore. Ne sarebbe uscito quel gioiello che è Diceria dell’untore.
Chiudo con un accenno a un caso controverso e che riguarda l’unico scrittore esplicitamente filonazista che l’Italia repubblicana abbia mai avuto: mi riferisco al Dante Virgili di La distruzione, su cui Antonio Franchini ha scritto un libro bellissimo e pieno di sensi di colpa, Cronache della fine, cui rimando. Capolavoro assoluto o monumento d’ignobiltà, questo di Virgili? Difficile rispondere se, alle sue spalle, e pronto a schiacciarlo, aleggia il fantasma di Céline con tutti gli equivoci (tra immoralismo estetico e moralismo eticizzante) che il suo caso ha generato, proprio quando un giovane ebreo americano naturalizzato francese, Jonathan Littell, con un libro di quasi mille pagine scritto dal punto di vista di un ufficiale delle Ss, ha offerto il suo contributo, ad accrescere, con la confusione, anche la nostra incertezza.
«Avvenire» del 23 agosto 2009

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